“When the birds fly low, the wind will blow” al Festival Equilibrio
Una prima italiana sul palco di Equilibrio Festival della Nuova Danza , quella andata in scena mercoledì 18 febbraio sul palco della Sala Petrassi. Si tratta di “When the birds fly low, the wind will blow” la creazione ideata, diretta e coreografata da Helder Seabra, che ha sicuramente avuto un forte impatto sul pubblico dell’ Auditorium Parco della Musica di Roma.
Eseguito da Ricardo Ambròzio, Sarah Baltzinger, Damien Fournier, Jeffrey Schoenaers, Julio Cesar Iglesias, con la drammaturgia di Lou Cope, “When the birds fly low, the wind will blow” racconta che tornare indietro aiuta ad andare avanti. È una storia sull’amore, sulla perdita, sull’essere senza radici, sulla speranza. E in fin dei conti è una storia sul perdono, sull’accettazione e la guarigione che ci parla di come possiamo aiutare il passato a trovare serenamente un posto nel presente e nel futuro.
Sin dall’inizio, ancor prima che si spengano le luci in sala, la scena è occupata dai Maya’s Moving Castle (Ann-Sophie Claeys voce, violoncello, tastiere, Nele De Gussem chitarra, voce, tastiere, Stijn Vanmarsenille Basso, tastiere e Elias De Voldere batteria) che per l’intera durata dello spettacolo suonano live, coinvolgendo lo spettatore con una musica originale che si sposa perfettamente con gli elementi coreografici. Ogni personaggio impegnato in scena è testimone di una propria storia, un vissuto fatto di gioie, dolori, nevrosi, abbandoni, risate, amori e scomparse, elementi che, come parte di un libro, hanno scritto le pagine di ognuna di quelle vite. In un crescendo di musica e movimento i cinque danzatori danno sfogo alla loro personalità ora sfociando nella malinconia ora nell’euforia in un continuo su e giù di umori: dalla tenerezza con la quale ci si prende cura dell’altro si passa improvvisamente alla sfida, alla lotta e alla rabbia. Ogni azione e reazione sembra quasi ampliata dal vino che viene realmente bevuto in scena, quasi a voler anestetizzare i pensieri di ciascun performer. D’un tratto poi tutto inizia a scemare come se qualcuno riportasse all’improvviso ordine in un caos pieno di ricordi, sensazioni, gesti, visioni.
La danza tenta di esprimere un dissidio interiore, dando l’impressione a tratti di un’ubriachezza quasi molesta che rende i corpi scomposti eppure, al tempo stesso, perfettamente consapevoli degli spazi: attraverso continue contorsioni, in particolar modo della schiena, tutto risulta essere estremamente fluido, persino ogni caduta, nonostante l’irruenza, appare controllata e millimetrica. I pezzi d’insieme esprimono forse al meglio una totale differenza di movimento e corporeità tra i danzatori, una disomogeneità che paradossalmente non stona, anzi rende il tutto più reale, veritiero e soprattutto credibile. Il finale è l’esatta trascrizione in forma gestuale e coreografica del titolo “When the birds fly low, the wind will blow”: come uno stormo di uccelli che volano via, i danzatori abbandonano la scena, lasciando che sia la musica a scrivere la parola fine.
Queste le parole del coreografo: “Era un assolato pomeriggio d’estate e io stavo seduto sulla veranda di una vecchia casa in mezzo al bosco, in un angolo remoto del Portogallo settentrionale. Sopra di me un gran volteggiare di uccelli… Nell’aria c’era un’atmosfera molto particolare, che non avevo mai sentito prima. Uno strano senso di attesa e mistero, come se dovesse accadere qualcosa da un momento all’altro. Dopo aver viaggiato e danzato in tutto il mondo per anni, mi ero da poco concesso una pausa, avevo conosciuto gente in ogni dove e raccolto un bagaglio di esperienze, ma ora tutto sembrava frammentato e lontano e mi sentivo, allo stesso tempo, dappertutto e da nessuna parte. Ho guardato la casa in cui mi trovavo, così salda, solida e immutabile e ho sentito forte l’assurda precarietà, la transitorietà e l’evanescenza dell’esistenza umana. Il contrasto fra l’essere ‘qui per sempre’ e l’essere ‘solo di passaggio’. Così ho cominciato a inventare storie. Mi sono messo a pensare ai segreti che poteva nascondere quella casa. Al dolore e alla gioia che aveva visto. Ho immaginato un via vai di gente, per intere generazioni. Un circolare di energia, di persone da sole o insieme, a chiacchierare, condividere, bere, ballare, vivere, ricordare, fare esperienze e andare più lontano, fianco a fianco. E ho deciso di invitare qualcuno di loro a tornare. Oggi mi rendo conto che seduto lì, sotto il sole del pomeriggio, il sentimento che mi aveva invaso era la saudade, un’emozione che è nel nostro DNA di portoghesi: il desiderio profondo, la malinconia struggente, la nostalgia acuta di qualcosa o qualcuno che ami. Quel desiderio ha condotto a un incredibile viaggio di esplorazione e scoperta. E quel viaggio ha portato a questa sera”.
Francesca Pantaleo
Tribuna Italia
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