Tra Medioevo e Risorgimento: l’identità italiana secondo Duccio Balestracci
La storia è una disciplina (termine in verità quantomai angusto per denotarla) che richiede profondità e agguerrite capacità di collegamento tra i vari elementi: non è pensabile riuscire a comprendere appieno, ad esempio, l’età del Risorgimento italiano e dei moti europei della prima metà del secolo XIX senza inquadrarli adeguatamente in quel calderone di esperienze culturali (letterarie, musicali, filosofiche) che fu il Romanticismo, fenomeno principalmente tedesco (con ramificazioni in tutta Europa) che attinse a piene mani da temi e suggestioni appartenenti ai secoli passati.
Tutto ciò è naturalmente ben chiaro allo storico senese Duccio Balestracci, docente di Storia medievale presso il Dipartimento di Scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena, che ha felicemente indagato il tema del rapporto tra costruzione dell’identità italiana e Medioevo nel suo ultimo saggio, arrivato in libreria nelle ultime settimane e intitolato Medioevo e Risorgimento, L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento (Il Mulino, Bologna 2015). Che un libro recante il sottotitolo L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento sia stato scritto non da uno storico del Risorgimento, ma da uno studioso del Medioevo, non deve quindi apparire bizzarro. Il presupposto del saggio di Balestracci è proprio quello di voler mostrare in che modo la cultura risorgimentale abbia voluto ritrovare nei secoli medievali il momento fondativo dell’identità italiana, e come ciò sia avvenuto per l’appunto contestualmente, né d’altro canto poteva essere altrimenti, a quella cultura romantica che nel recupero del Medioevo, in contrapposizione al mito dei “Secoli bui” dagli accenti tipicamente illuministi, ha intravisto un elemento imprescindibile.
È un fatto, diceva Benedetto Croce, che mai come nell’Ottocento il Medioevo poté godere del favore delle élite intellettuali italiane: Carducci, sorta di padre della Patria aggiunto, santifica il Medioevo italiano in chiave identitaria, direzione intrapresa anche da colui che viene considerato tra i maggiori storici italiani di quel secolo, quel Pasquale Villari (1827-1917) che volle ravvisare nell’età di mezzo un modello culturale da offrire agli italiani.
Certo, tutto ciò non poteva avvenire senza un prezzo, perché un’operazione di questo calibro non poteva che piegarsi alle contingenze e alle necessità della politica: “per trasferire i concetti elaborati da storici, eruditi e, in genere, intellettuali dal piano della riflessione scientifica a quella politica, si deve attuare una rielaborazione (diciamo pure, una manipolazione) che li renda praticabili per l’uso comunicativo che se ne vuol fare”, scrive Balestracci. Ci s’immagini in quale modo potesse venire enfatizzato all’epoca, in tal senso (e, seppur in ben diverso contesto, ancora in tempi recenti), un evento come la famosa battaglia di Legnano del 1176, quando i comuni italiani riuniti nella Lega Lombarda scacciarono il Barbarossa e con lui i tentativi dell’Impero di egemonizzare l’Italia del nord; oppure in quale maniera Dante venisse, assai ottocentescamente, colmato di forzature, eretto a divinità in un processo che ci ricorda la sorte spettata al compositore Johann Sebastian Bach, “riscoperto” (quando in realtà non era mai stato dimenticato) nel corso dell’Ottocento e quindi definito nientepopodimeno che “il quinto evangelista”.
Balestracci erige il suo discorso infarcendolo degli esempi più disparati, concedendosi persino qualche (pertinente e in realtà pressoché inevitabile) deviazione verso gli altri principali paesi europei: il Romanticismo fu emanazione principalmente tedesca (e non sarà un caso se, poiché la situazione politica tedesca era frammentata come e più di quella italiana – ancorché probabilmente assai più forti erano i collanti culturali-identitari rispetto alla Penisola – qui il desiderio di costruire un’identità condivisa che potesse tradursi in nazione era molto più forte che altrove, vale a dire rispetto ai paesi in cui quella unità era già stata raggiunta). Con l’accuratezza del ricercatore e la capacità narrativa dello storico dalla consumata esperienza, Balestracci ci mostra una carrellata di scritti e scrittori, opere di storici, romanzieri, musicisti, architetti, sottolineando il costante riferimento al Medioevo sempre in relazione alla formazione dell’identità italiana durante il Risorgimento: così Donizetti, qui definito il “medievista della lirica italiana ottocentesca” sentì di dover mettere in musica Pia de’ Tolomei o Rosmonda Clifford nella Rosmonda d’Inghilterra; in Germania Wagner recuperò i cicli medievali nella tetralogia del Ring, ma celebrò pure un personaggio controverso come Cola di Rienzo nell’opera in cinque atti Rienzi (1840). Balestracci passa con disinvoltura dalla musica alla letteratura, dalla storia all’architettura, sempre in maniera stimolante: soffermandosi sulla città di Torino pone l’accento sulle forme neogotiche dell’Italia settentrionale durante la fine del secolo, la cui massima espressione rimane probabilmente quel suggestivo borgo medievale fatto costruire, ricalcando i moduli del gotico piemontese, in occasione dell’Expo del 1884, rispondendo per l’appunto alla enorme “domanda” di Medioevo che quel secolo aveva creato.
Marco Testa
Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino, docente presso l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli, lavora presso l’Archivio di Stato di Torino ed è critico musicale di “Musica” e de “Il Corriere Musicale”.