Siamo sicuri che sia tutta colpa degli Studi Umanistici?
In questi giorni su Il Fatto Quotidiano ben due articoli del vicedirettore Stefano Feltri (“Il conto salato degli studi umanistici” e “Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri”) stanno suscitando immense polemiche. Con i suoi assunti Feltri si inserisce nell’ormai trito e ritrito scontro tra scienza e letteratura, che sin dagli albori della moderna società muove trepidanti schiere di intellettuali di una e dell’altra fazione.
La tesi di Feltri, in estrema sintesi (ma forse nemmeno così estrema data la pochezza argomentativa di entrambi gli articoli) è la seguente: nel mondo contemporaneo scegliere di fare una facoltà umanistica è un grave errore, perché tale scelta ha come unica prospettiva futura una vita di stenti economici e disoccupazione. Lo Stato dovrebbe togliere finanziamenti ai corsi di laurea (che lui, usando una terminologia desueta a partire dalla riforma Gelmini, chiama ancora, pubblicamente, “facoltà”) umanistici per incentivare quelli delle lauree scientifiche e le future matricole dovrebbero, nella scelta di cosa fare della loro intera esistenza, seguire meno il cuore e un poco di più le ragioni del portafogli. Il tutto basandosi su un Paperdel centro di studi CEPS.
Ora, posto il fatto che a partire da una tesi di partenza piuttosto forte e, se posso permettermi, anche abbastanza banale e semplicistica, Feltri sviluppa le sue argomentazioni in modo approssimativo e debole, cerchiamo di osservare da vicino, passo per passo, gli snodi principali dei suoi due articoli.
Già leggendo con senso critico la fonte, infatti, si può osservare come il vicedirettore del Fatto sia molto abile nell’utilizzare i dati a suo piacimento.
Scrive infatti: «Un paper del centro studi CEPS, firmato da Miroslav Beblavý, Sophie Lehouelleur e Ilaria Maselli ha calcolato il valore attualizzato delle lauree, tenendo conto anche del costo opportunità (gli stipendi a cui rinuncio mentre studio invece di lavorare) delle diverse facoltà nei principali Paesi europei. Guardiamo all’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato.»
Tuttavia:
- Un Papernon è un articolo scientifico, ma è uno studio pilota ancora allo stato di working paper, cioè di bozza. È davvero così sicuro utilizzare come fonte un lavoro sul quale non c’è stato il tempo di raccogliere altri pareri dalla comunità scientifica?
- I dati utilizzati dalPaper per l’Italia fanno riferimento all’anno accademico 1999/2000, quando il sistema universitario era in parte differente dall’attuale, in primis non esisteva la divisione del 3+2. Probabilmente in 15 anni la situazione accademica e il mercato del lavoro sono cambiati e pare fuori luogo dare indicazioni sul domani basandosi su dati di ieri.
Lo studio non è assolutamente volto a dimostrare l’inutilità delle scienze umanistiche e nemmeno arriva a trarre questa conclusione, che invece, a partire dalla stessa base, trae Feltri. La ricerca muove dall’interrogativo circa il motivo per cui ci sono pochi studenti laureandi nelle così dette materie STEM(Science, Tecnology, Engeneering, Mathematic), nonostante queste materie offrano statisticamente migliori prospettive stipendiarie. Lo studio dimostra, utilizzando l’approccio NVP, che calcola il valore attualizzato delle lauree, come, in realtà, le materie STEM non diano un vantaggio così grande, essendo esse, nel momento in cui le si studia, molto onerose. Il valore attualizzato delle lauree, infatti, calcola il valore del titolo conseguito a fronte dei costi sostenuti (costi universitari, tempo speso che si sarebbe potuto impiegare lavorando eccetera) e dei benefici (stipendio ottenuto una volta laureato, rapidità nell’essere assunto eccetera). Lo studio fissa a 100 il valore stipendiale medio del possesso di una laurea e confronta tra loro i valori delle lauree. Dal confronto emerge che il massimo vantaggio proviene NON dalle lauree ingegneristiche o scientifiche, come assume invece Feltri, mada Medicina o dalle Scienze Sociali (ovvero Legge, Economia, Finanza). Studi Umanistici si classifica, a onor del vero, come corso di laurea dai bassi costi, ma anche dai bassi ricavi.
Pare quindi piuttosto forzata la lettura di Feltri di questo Paper, così come le conseguenze che ne trae: «Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato. Ma finché gli “intellettuali pubblici” su giornali e tv continueranno a essere solo giuristi, scrittori e sociologi, c’è poca speranza che le cose cambino.»
È vero, dallo studio si potrebbe giungere alla conclusione che Studi Umanistici sia una laurea poco conveniente. Ma anche che sia poco conveniente studiare Ingegneria, cosa che invece Feltri, qualche riga prima, proponeva come alternativa più che valida. Ma questo è vero? Da che mondo è mondo, oggi specialmente, una laurea in ingegneria equivale praticamente ad assunzione a tempo indeterminato e stipendio altro. Allora il Paper si sbaglia? O forse che lo studio aveva altro scopo da quello di indirizzare gli studi dei futuri lavoratori? Non si voleva semplicemente studiare un dato di fatto, cioè che sono meno gli iscritti ad Ingegneria rispetto a quelli in Economia e Lettere? Questo significa forse che Economia è una facoltà più facile e meno sicura come Lettere? Non credo Feltri direbbe mai questo, dato che vanta a più riprese l’utilità di questa (la sua!) laurea.
Ma andiamo avanti con i numeri e le statistiche: risulta infatti che i laureati in studi umanistici in Italia sia inferiore a quella in Germania, Francia, Regno Unito e USA (vedi qui).
Allora perché Feltri, oltre all’infelice frase sopra citata sulla diffusione del “fenomeno umanisti” in Italia, nel secondo articolo di replica ancora insiste sul fatto che esista «un’idea molto italiana che la cultura sia solo la cultura umanistica?». A questo si potrebbe rispondere con tirate retoriche circa il fatto che l’Italia è (anche) una terra umanistica, dall’enorme patrimonio culturale e artistico, il quale non aspetta altro di essere meglio valorizzato. E ancora che forse se i numerosi esperti di Economia e Finanza imparassero a conoscere anche questo aspetto della nostra terra potrebbero proporre politiche di ripresa economica basate anche sulla valorizzazione dei Beni Culturali e del Turismo ambientalista e culturale, di cui l’Italia potrebbe essere campionessa mondiale e non aspetta altro che vengano messe in moto, per occuparsene, le schiere di inutili studenti laureati in facoltà umanistiche. Ma, poiché la retorica è solo dei morti antiqui mores compianti da Cicerone e dei letterati e filosofi acchiappanuvole, lasciamo ancora una volta che siano i numeri a parlare: seconda una statistica del MIUR, nell’a.a. 2009/10 i corsi di studio che hanno registrato il maggior numero di immatricolazioni sono stati quelli del settore Economico-statistico (14,8 immatricolati su 100), Ingegneristico (11,9 su 100) e Giuridico (10,9 su 100). La diminuzione più vistosa si è verificata nell’area Letteraria (-9,4%); cali consistenti si sono registrati anchenell’area dell’insegnamento (-8,9%). Le immatricolazioni sono invece aumentate nell’area Geo-biologica (+7,7%). Nell’insieme dei corsi di studio di matematica, scienze e tecnologie, per le quali esiste una particolare attenzione a livello europeo, le immatricolazioni continuano ad avere un andamento crescente ed attualmente rappresentano il 26,8% del totale.
A partire da questi dati ci si potrebbe chiedere da dove nasca, a questo punto, la grande preoccupazione espressa da Feltri circa le orde di studenti che si iscriveranno a lauree umanistiche. Sembra, invece, che neomaturati abbiano molto più senso e spirito economico di quanto il vicedirettore del Fatto Quotidiano possa farci credere. Oppure egli vorrebbe eliminare quasi del tutto gli studi umanistici dall’ambito universitario? In fondo, lui stesso scrive qualcosa di simile: «Dal lato delle scelte collettive, cioè le politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente. Tradotto: meglio avere molte facoltà di filosofia e scienze della comunicazione o chiuderne qualcuna e magari dare più incentivi alla ricerca in campo chimico o elettronico? Parliamone.»
Per capire bene perché Feltri arrivi a questa drastica conclusione è bene seguire per punti il suo ragionamento sin dal principio. Nel primo articolo egli sostiene che alle facoltà umanistiche si iscrivono gli studenti «più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi», mentre «I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi». Le facoltà umanistiche, quindi, oltre ad essere per assunto ontologico un percorso che si può intraprendere «se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare» in quanto non danno alcuna speranza lavorativa futura, sono anche frequentate da un “capitale umano” di bassa qualità, che peggiora la situazione di suddetti corsi di laurea, facendone dei capri espiatori sacrificabili dall’economia dello Stato.
A maggior riprova di questo, nel secondo articolo ecco nuovi dati, questa volta sul tasso di disoccupazione: gli studi umanistici sono, tra i corsi di laurea, quelli che producono il maggior numero di disoccupati. «Chi studia materie letterarie, quindi ha un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio della media, pari a 9,2 per cento. E non stiamo parlando di una disoccupazione immediata, fisiologica, di assestamento, ma a cinque anni dalla laurea», scrive. Non solo, studi umanistici è anche il corso di laurea che prospetta al laureato che riesce fortuitamente a trovare lavoro lo stipendio più basso: «Gli uomini laureati in ingegneria guadagnano 1759 euro, quelli in medicina 1668, quelli in materie scientifiche 1653, chi ha studiato economia e statistica 1602. Quelli che guadagnano meno: chi ha studiato scienze della formazione, 1201, chi ha fatto studi letterari, 1263, chi giuridici, 1305 (ma quest’ultimo dato è poco rilevante: un avvocato o un magistrato inizia davvero la sua carriera quasi due anni dopo la laurea ma poi progredisce molto in fretta nel reddito).»
Su questi ultimi dati non c’è nulla da dire: è la realtà dei fatti. Il problema sono le premesse e le conclusioni che arrivano e partono dagli stessi. Secondo quale assunto gli studenti che si iscrivono a Lettere o Filosofia dovrebbero essere i più svogliati? E, partendo dalla considerazione iniziale, cioè che chi si iscriverebbe a studi umanistici lo farebbe spinto dalla passione, perché allora questi studenti dovrebbero essere i meno motivati e i meno diligenti? Non dovrebbe, per logica, essere vero il contrario? Un ragazzo che sceglie di seguire la propria passione e iscriversi a un percorso di laurea notoriamente insicuro e poco foriero di prosperità futura (a detta degli economisti) dovrebbe per lo meno farlo con motivazione e desiderio di rivalsa. Cose, entrambe, che se ben messe a frutto, generano ambizione e ottimi risultati. Tanto più in un mondo in cui la maggior parte delle persone, nel momento in cui si sceglie un percorso letterario-filosofico, non fa altro che far notare quale scelta rischiosa, impopolare, facile (ma è davvero così facile?) si sia compiuta. Ciò fa nascere, in una persona competitiva ed appassionata, la voglia di dimostrare che si può realizzare ciò che si desidera anche contro corrente.
Per quanto riguarda il suggerimento di tagliare gli investimenti sugli studi umanistici, se si guardasse all’ultimo bando nazionale per progetti di ricerca – SIR 2014 – si scoprirebbe che dei 47 milioni di euro destinati ai progetti dei giovani ricercatori solo il 20% sono destinati al comparto di scienze umane e sociali, e il restante 80% alle scienze fisiche ed ingegneristiche.
È vero, gli studi umanistici producono (anche) disoccupazione, e questo in una società ideale è da condannare. È vero, lo stipendio medio di un laureato in Lettere o Filosofia non è certo competitivo rispetto a quello di un medico, di un avvocato o di un ingegnere. Ma quando si parla così si ragiona per modelli medi e luoghi comuni. È vero che nei corsi di laurea umanistici, in primis per il fatto che esse sono ad accesso libero, si riversa un gran numero di studenti che non sanno bene cosa fare della loro vita. Questo contribuisce in buona parte alla negativa nomea di questo percorso di studi. Alcuni si iscrivono a lettere, come dice Feltri, illusi da sogni bohemien o pensando che basti quello per diventare i prossimi Umberto Eco. Ma è anche vero che molti studenti si iscrivono a Medicina dopo aver guardato tutte le stagioni di Grey’s Anatomy o a ingegneria perché pensano che basti una laurea presa a tentoni per avere un comodo posto di lavoro o perché inseguono ingenuamente il sogno di essere i futuri Steve Jobs, per poi abbandonare gli studi dopo qualche anno di fuori-corso. Per questo, forse, servirebbe una riflessione più approfondita che sappia allargare lo sguardo su tutto il panorama e non si soffermi solo dove l’accusa risulti più facile. Ragionare per luoghi comuni e semplificazioni può essere utile per creare modelli statistici e/o comportamentali, ma che dovrebbero fermarsi, appunto, allo stadio di “modelli”. Asserire verità assolute o consigli a partire da mere ipotesi ideali porta solo a grandi equivoci. Ad esempio? Ebbene non è detto che uno studente di lettere debba per forza finire a fare l’insegnante, segnandosi a vita come precario. Così come non è detto che tutti gli scrittori siano letterati. Carlo Emilio Gadda, uno tra tutti, era un ingegnere. Massimo Cacciari, filosofo, è anche un grande politico. Carlo Azeglio Ciampi è laureato in lettere classiche alla Normale di Pisa. Solo per citarne alcuni. Un laureato in studi umanistici, se ha un poco di inventiva e voglia di fare, cosa che ha certamente se ha fatto questa scelta in modo consapevole, sa che, con molta fatica, spesso più fatica dei suoi colleghi universitari di corsi “professionalizzati”, quali medicina e ingegneria, deve correlare allo studio varie esperienze lavorative già durante gli anni universitari, così da poter presentare un curriculum interessante una volta finiti gli studi. Si può volgere verso la carriera accademica, verso il mondo dell’editoria, verso la gestione dei beni culturali, verso la politica, ma anche verso la gestione di risorse umane di qualsiasi azienda, le biblioteche, i musei, si può aprire una libreria, gestire reti di eventi culturali, a cui tutti i futuri ingegneri, economisti, finanzieri e alta società ameranno partecipare. Può anche, perché no cari Feltri, intraprendere la carriera giornalistica, perché, checchè se ne dica, «la qualità della scrittura, dell’argomentazione, la passione» contano. Un giornalista, così come un uomo pubblico o un politico, che non sa parlare, che non sa argomentare e che non conosce davvero ciò di cui parla, non riuscirà mai a incidere in nessun modo sull’opinione pubblica. Forse il fatto che il giornalismo stia morendo o si stia abbassando a mere logiche di mercato e audience, è anche colpa della poca sensibilità culturale di chi, questo giornalismo, lo fa. E la maggior parte dei giornalisti di oggi, a quanto risulta, sono laureati in Legge, non in Lettere. Non so cosa ne penserebbe a riguardo Pier Paolo Pasolini, ad esempio. La passione poi, che Lei tanto condanna, è la chiave del successo professionale, oltre che personale, di un soggetto. Gli uomini, fino a prova contraria, non sono agenti economici che si comportano come agenti razionali il cui scopo è massimizzare i profitti. È banale e antico quanto il mondo quel famoso detto sui soldi e la felicità, eppure, chissà per quale balordo motivo, ogni epoca e civiltà trova il suo modo per ribadirlo ed inchinarvisi davanti quale verità. Certo, in una società consumista e materialista, forse le cose sono cambiate. O forse il fatto che ancora ci siano iscritti a facoltà “svantaggiose”, dimostra come, invece, ci sia ancora la fantasia e la voglia di porsi contro corrente.
I dati che Feltri ha utilizzato per la sua argomentazione, forse, avrebbero potuto più fruttuosamente portare verso altre rive. Ad esempio quella di chiedersi come mai tanti ragazzi che non sanno cosa fare, o che, molto probabilmente, non hanno più voglia o intenzione di studiare, pur di avere un pezzo di carta, riempiono le facoltà più “accoglienti”, quali Studi Umanistici? Forse perché in Italia, come in Europa, le professioni manuali, l’artigianato, l’agricoltura, offrono una prospettiva addirittura peggiore degli Studi Umanistici. Ma è giusto questo? E questi ragazzi poco motivati dove andranno una volta conclusa un’università fatta senza interesse? Di chi è colpa? Dell’università che scelgono o del contesto socio-economico che non incentiva più un percorso lavorativo di altro tipo se non quello specializzato?
Oppure ancora si poteva arrivare a concludere che sia necessaria una maggior tutela del percorso di studi umanistico, magari cercando di alzare il livello interno, di renderlo competitivo, di incentivare la qualità dell’insegnamento, magari ponendo soglie di sbarramento più alte che allontanino i poltroni e motivino chi si iscrive con volontà, di cominciare ad investire anche sugli sbocchi professionali di queste lauree (che, ripeto, non sono solo ed esclusivamente l’insegnamento). Forse l’unica vera accusa che si sarebbe potuta muovere è che gli italiani, in particolare parte della gioventù italiana, sono probabilmente troppo ben abituati a trovare il pasto pronto e caldo, invece di andarselo a cercare. Questo sarebbe da condannare, ma ancora una volta non è colpa del percorso di studi, anzi. Spesso sono proprio materie come la Filosofia e la Storia a stimolare la voglia di fare e l’intraprendenza dell’individuo. Spesso è proprio la Letteratura ad accenderne la fantasia e a dare la facoltà di trovare nuove soluzioni e possibilità di crescita e miglioramento; non solo per se stessi, ma per ciò che ci circonda.
Una repubblica di filosofi è solo utopia, ben lo sapeva già Platone. Ma un mondo di sole macchine e numeri è altrettanto spaventoso. Una società dovrebbe essere equilibrata a tutti i livelli e ognuno dovrebbe riuscire ad occupare il posto a lui confacente, per il bene di tutti. Magari con un poca di tirannica ricchezza in meno e molto benessere (che non è solo materiale, all’attenzione degli economisti) in più.
P.s. Se il Signor Feltri ha preso sul personali gli attacchi alla Bocconi e cita il suo caso come esempio di sacrificio delle illusioni per la realtà, vorrei potermi permettere lo sfizio di fare lo stesso. Studio lettere classiche con intraprendenza, passione e spirito di sacrificio e nel frattempo collaboro con un giornale e una casa editrice. Ed ho solo 22 anni. Poi, per carità, probabilmente sono stata solo molto fortunata.