Siamo noi che dobbiamo chiedere scusa a Spotify
Per chi si occupa di privacy sarà saltato all’occhio l’ultima novità di casa Spotify che ha tenuto banco tra i blog e i media di tutto il mondo negli ultimi giorni.
Argomento: l’ultimo aggiornamento dei termini e condizioni del popolare servizio di musica streaming. All’onore della cronaca poiché questa novità non è andata giù a molti utenti che su twitter hanno dichiarato che avrebbero disdetto il loro abbonamento.
Cosa è successo?
Le nuove condizioni di privacy policy comparse la scorsa settimana dichiarano che Spotify potrà avere accesso a geolocalizzazione, contatti, foto e molto altro presente sul nostro device.
Motivo ufficiale: garantire la massima personalizzazione dell’esperienza d’ascolto con l’azienda svedese da 75 milioni di utenti, di cui 20 milioni paganti.
In che modo?
La geolocalizzazione servirà a Spotify per capire se siamo fermi o di corsa, suggerendo di conseguenza la miglior playlist, rilassata o carica per darci lo sprint e non farci mollare all’ultimo miglio.
Le foto per suggerirci playlist con le nostre foto sopra.
I contatti per suggerire Spotify agli amici e trovarli prima.
Dunque tutto bene no?
No. Quando si sottoscrive un contratto (esatto, quando cliccate sottoscrivete un contratto come fareste con carta e penna) non conta quello che uno vi dice farà, conta quello che c’è scritto, che allarga il ventaglio a tutto quello che potrebbe fare grazie al vostro consenso, più o meno consapevole.
Vabè, parliamone prima no?
No. Se ti va bene bene, se no lascia il servizio. Lo dice Spotify. Almeno fino all’altro giorno.
Infatti non è piaciuto questo aut aut ai molti utenti che su twitter hanno espresso il loro dissenso minacciando di abbandonare il servizio. Tant’è che il CEO Daniel Ek ha dovuto fare un passo indietro con tanto di scuse per aver violato la privacy degli utenti.
Nel post che ha scritto, intitolato in modo eloquente SORRY., Daniel si scusa per il misunderstanding, loro ci tengono alla sicurezza e alla privacy dei loro utenti, per questo useranno solo i dati che di volta in volta gli utenti daranno loro e solo secondo gli scopi annunciati.
Ma era davvero un problema?
Il problema quando si parla di privacy c’è sempre ma non si vede. Ed è quello che Spotify ha spostato l’asticella, o meglio l’ha fatto per un servizio di musica streaming.
In realtà a moltissime (diciamo a tutte) le app che abbiamo sul telefono noi diamo il consenso a leggere la nostra rubrica, la nostra lista di amici, geolocalizzarci etc. E facebook qualcosa ha pure fatto a riguardo dando la possibilità di modificare il numero di informazioni che forniamo spesso di default (v. a riguardo l’effetto default di cui ho parlato QUI) al momento del consenso, senza dover scoprire in quali meandri trovare quell’opzione. Ma spesso si tratta di opzioni che conoscono solo gli addetti ai lavori. Chiedete a vostra sorella/fratello se sa dove si cambiano le impostazioni sulla condivisione delle informazioni (a proposito, per i dati forniti ad applicazioni terze i permessi si cambiano QUI).
Perché è importante?
Ora, io ci credo anche che Spotify (oggi) userà queste informazioni per personalizzare la mia esperienza musicale, ma domani?
Perché mi importa sapere cosa ci farà domani? Perché contrariamente a quanto si possa pensare, la privacy non è morta e ha più valore di quello che possiamo pensare. Peccato che lo scopriamo solo quando la perdiamo, come tutte le cose importanti.
Non a caso nella corsa ai ripari il CEO ha detto che sarà possibile scegliere, niente più prendere o lasciare.
Per non scomodare per l’ennesima volta Orwell e il suo 1984, ne cito uno diverso di libro, più recente, The Circle, uscito in Italia lo scorso autunno. L’autore, Dave Eggers, immagina un mondo governato dalle grandi multinazionali delle telecomunicazioni (simil Google, Facebook etc per intenderci) dove tutto è in vetrina secondo l’amato “tanto se non hai nulla da nascondere non hai nulla di cui preoccuparti”.
Sappiamo tutti che non è vero e, anche se sono un grande fan della moneta elettronica a scapito del contante, come rimedio definitivo a fenomeni radicati come corruzione ed evasione fiscale, mi rendo conto che un mondo dove venisse meno il diritto alla privacy, a non svelare tutto, non sarebbe un mondo migliore, anzi.
Purtroppo rischio di essere ripetitivo, ma le persone, nel nostro mondo plurinformato, non sono informate. Se anche Spotify farà scegliere i suoi utenti, questi non sceglierebbero proprio un bel nulla. Si deve parlare di privacy perché oggi è la cosa meno scontata che ci sia. Tutti i giorni ce ne togliamo un po’, dal tweet del buongiorno alle foto dei figli al mare.
Non ce ne rendiamo conto solo perché con ogni azione quotidiana, ogni post, spostiamo l’asticella, spinti verso il burrone dal nostro ego alimentato di like e facilitazioni, dove gli altri scelgono per noi, anche le nostre canzoni preferite (a proposito di burrone e di ego consiglio il video di Stromae a riguardo, la canzone si chiama Carmen).
Siamo noi che scegliamo, ogni istante della nostra vita. Ma per poter scegliere dobbiamo conoscere.
Quindi signori, non ci resta che:
- leggere quelle maledette condizioni, non oggi, sempre
- pensare a quali permessi stiamo dando
- chiederci: ma glieli voglio dare?
- Cosa comporta dare questi permessi? Cosa vedo oggi che non vedrò domani?
- A quel punto sperare di far la scelta giusta, qualunque essa sia.
In caso contrario resteremo quelli che siamo, un popolo di pecoroni che si lamenta e basta, che si chiede perché tutto vada male, come è possibile che quel partito sia al governo, come è finita la foto di mio figlio in un sito pedopornografico (sì esatto, nulla di più facile potenzialmente), chi gli ha detto che non ero a casa malato, perché sono su un cartellone pubblicitario 6×3, etc etc. La risposta a quella domanda ce l’avete tutte le mattine che vi lavate davanti allo specchio. E no, non parlo del nuovo sapone.
Quindi, dopo tutto sto pippone, mi cancello o no da Spotify?
Diciamocelo, la verità è che Spotify ha avuto la “sfiga” che qualcuno se ne sia accorto. Perché dare accesso ai nostri dati, compresi quelli dei nostri amici, è cosa che facciamo da quando abbiamo uno smartphone in tasca.
La cosa inusuale quando si parla di privacy policy infatti, ed è il motivo per cui ci credo a quel SORRY., è che Spotify nella sua versione sottolinei che quando si condividono i dati altrui (es. numeri di telefono e foto) diverse leggi chiedono che ci sia il consenso di queste persone.
Se vi fate un giro negli altri social network questa enfasi non c’è. È quindi assurdo prendersela con Spotify solo perché qualcuno si è svegliato e ha detto “ehi, cosa ci vogliono fare con i miei dati?”, perché la verità è che lo fanno da anni e siamo noi a dirglielo.
Siamo noi che dobbiamo chiedere scusa a Spotify, che si son trovati insultati senza motivo, solo per aver fatto come fan tutti e averlo detto.
Perciò scusa Daniel, scusa se non abbiamo letto le istruzioni.
@VincenzoTiani
da vincenzotiani.com
PS: La risposta alla domanda è che potete continuare a stare su Spotify, non farà nulla di più di quello che già non fanno gli altri. Con la decenza che almeno ve lo dicono esplicitamente.
Tips & tricks
Ok mi hai convinto, voglio controllare meglio la mia privacy, cosa posso fare?
Se siete diventati un po’ paranoici di privacy vi consiglio un’app scaricabile sia per smartphone (iOS e Android) che come estensione per Chrome. Si chiama AVG PrivacyFix.
La sua qualità è che fa un’analisi dei vostri profili social e vi dice cosa dovreste cambiare. In più fa una stima del valore economico del vostro account.
E voi, conoscete qualche applicazione/sito salva privacy?
Vincenzo Tiani
Diviso tra copyright e copywrite, seguo le tematiche del diritto di internet e della comunicazione online. Ora a Bruxelles per un Master Avanzato in Proprietà Intellettuale e Diritto dell’ICT. A Whead.it mi occupo di Digital Communication, l’altra mia grande passione.