Sarajevo, la capitale sorridente
Ho visto bambini come ero io negli anni Novanta. Con i pantaloncini e la maglietta a righe bianche e blu comprati nel negozietto sotto casa. I capelli sudati appiccicati alla fronte e i baffi di cioccolata. Le ginocchia sbucciate. Le ciabatte e i piedi neri. Ho visto bambini costretti a vendere pannocchie abbrustolite in mezzo al vento gelido anziché giocare con lo smartphone con i piedi sul divano. Ho visto un padre non salire sul trenino con la figlia e la mamma perché un altro biglietto da cinque euro non se lo poteva permettere. Ho visto il severo scorrere del tempo negli occhi stanchi dei contadini seduti a bordo strada. Carretti stracolmi di fieno trainati dai cavalli. Ho visto altopiani dorati aprirsi dopo foreste di abeti color smeraldo. Fiumi quieti incunearsi tra vette solitarie. Paesaggi bellissimi. Poi ho visto stazioni di sosta dove le ferite di guerra si sono portate via la voglia di sorridere. Le case crivellate dai colpi di artiglieria. Migliaia di lapidi. E sono rimasto senza respiro.
Più o meno alle ore 14:00 di un arido giorno di fine agosto realizzo uno dei miei sogni: entrare a Sarajevo. Da solo. In macchina. Dopo essermi perso per settimane in mezzo ai Balcani e avere ripercorso almeno per un istante quelle strade di una guerra che mi passava sopra la testa, mentre io giocavo in riva al mare un po’ arrabbiato perché in acqua c’era la mucillaggine.
La corsa della M5 che dal confine con la Serbia porta alla capitale della Bosnia finisce davanti all’edificio simbolo della città: l’ex biblioteca nazionale e ora diventata sede del municipio. Le automobili non sono molte e il traffico scorre veloce. Mi sistemo all’hotel Noble dove incontro il giovane proprietario che parla un po’ di inglese. Gli racconto in poche parole il mio viaggio: Cesena-Istanbul andata e ritorno. Lui mi guarda stupito e mi sorride. E’ gentile. Gli faccio una domanda sulla guerra. Mi indica sulla cartina un paio di musei che ne parlano poi continua a sorridermi. Allora capisco che qui a Sarajevo qualcosa è diverso dal resto dei Balcani. Le persone sorridono.
Mentre dal minareto della grande moschea Gazi Husrev-beg un muezzin chiama alla preghiera, io attraverso il piccolo fiume Miljacka sul famosissimo Ponte Latino. Qui nel venne ucciso l’erede al trono di Austria e Ungheria l’arciduca Francesco Ferdinando, il casus belli che diede inizio alla prima guerra mondiale. Risalendo il fiume arrivo all’edificio senza dubbio più affascinante della città: la Vijećnica. Costruito in stile moresco fu il municipio della città fino al 1949, quando vi venne trasferita la biblioteca nazionale. Durante l’assedio di Sarajevo i serbi lo bombardarono fino alla completa distruzione, cancellando in un attimo l’intera memoria del popolo bosniaco. Ricostruito e riaperto nel 2014 ora è sede del municipio e ospita diversi eventi ed esibizioni temporanee.
Il sole è ancora alto. Ci saranno su per giù 40 gradi. Bevo un sorso d’acqua e inizio la salita che mi porta al cimitero di Alifakovac. Calpesto per qualche metro i ciottoli della vecchia strada ottomana che portava ad Istanbul e mi ritrovo tra centinaia di lapidi bianche. La data di morte è la stessa su tutte: 1994 o 1997. Vorrei chiedere a quel vecchio ricurvo sul proprio bastone il perché, ma il non sapere il cirillico non me lo permette. Così presumo che sia la data di ritrovamento nelle fosse comuni. E temo di non sbagliare.
Inizio a ridiscendere e rimango colpito. Da qui si vede tutta la città. Avvolta dall’afa bianca e dai vapori grigiastri che escono dai comignoli delle innumerevoli kafane, Sarajevo sembra ancora fumare come se i bombardamenti siano appena terminati. Ormai stanco mi addentro nella Baščaršija: il quartiere turco. Moschee. Sinagoghe. Cattedrali ortodosse. Viuzze pedonali stracolme di persone. Cortili con tavolini e caffè. Botteghe di artigiani. Piccoli bazar. Profumi di spezie e di oriente. Ordino una fetta di burak e faccio notte sugli scalini della Sebilj: la fontana al centro della piazza dei piccioni, ossia la piazza centrale del quartiere turco e dalla capitale stessa.
La mattina seguente è domenica. Dopo la tipica colazione a base di omelette affogata nell’olio fritto della quale riesco a mangiarne appena un terzo, in pochi minuti arrivo al War Childhood Museum. Un museo appena inaugurato dove sono collezionati ed esibiti oggetti e ricordi personali che in circa un’ora raccontano, grazie alla audioguida o a dettagliate didascalie in inglese, le esperienze dei bambini cresciuti durante la guerra in Bosnia dal 1992 al 1995. Altalene che dondolavano negli scantinati senza corrente, letterine scritte a dei fratellini mai più rivisti, cappellini bucati dai proiettili dei cecchini, pupazzi sbiaditi, un vecchio walkman, un maglione liso, qualche confezione di chewingum con adesivi che anche io avrò messo in quegli scatoloni che le maestre delle elementari ci facevano riempire. Guardo quegli oggetti consumati dal tempo. Provo a scorgerne i momenti. A estrapolarne il significato. E alla fine rimango immobile. Pietrificato. Con una grafia tremolante scrivo un sentito ringraziamento nel libro dei visitatori ed esco.
Lungo la via pedonale Ferhadij trovo gli atri due musei storici sulla guerra in Bosnia: la Gallery 11/07/1995 e il Museum of Crimes Against Humanity and Genocide 1992-1995. Qui comprendo meglio le cause e gli avvenimenti del conflitto: il piano di Milosevic di creare una grande Serbia annettendo la Bosnia, la pulizia etnica messa in atto dai Serbi, i fatti oscuri accaduti nella cittadina di Srebrenica dove persero la vita circa 11.000 persone, l’intervento (e il conseguente fallimento) delle Nazioni Unite, l’inferno vissuto durante l’assedio di Sarajevo, la sua liberazione. Dopo circa tre ore di immagini e testimonianze scioccanti mi si è chiuso lo stomaco e non riesco più a continuare. Fuori è buio. Per buttare via i pensieri che mi hanno investito mi butto in mezzo ad una festa turca e rivedo per un attimo le luci ondeggiare nelle acque del bosforo.
Dopo una notte insonne carico i bagagli ormai pieni solo di indumenti sporchi sulla mia Ford e inizio a guidare verso il tristemente noto Sniper Alley, ovvero il viale dei cecchini dove persero la vita centinaia di bambini trafitti dai proiettili dei fucili serbi. È incredibile! Nonostante che siano trascorsi più di vent’anni, le ferite della guerra sono ancora visibili sulle facciate dei block crivellate dall’artiglieria. E’ lunedì. Tutti vanno al lavoro parecchio di fretta e parecchio attaccati al clacson. Io vado alla ricerca dell’ultimo sito storico che mi ritrovo cerchiato sulla mia cartina stropicciata. Mi perdo un paio di volte tra le campagne intorno all’aeroporto. Una signora sta stendendo i panni dal balcone e io le urlo dal finestrino: “Tunel?”. Seguo le sue mani. Destra, sinistra e destra ancora, o insomma qualcosa del genere. Finalmente arrivo al parcheggio di quello che è il simbolo della sopravvivenza negli anni dell’assedio di Sarajevo: la casa della famiglia Kolar, diventata oggi Museo del Tunnel. Durante la guerra l’aeroporto (zona neutrale) era presidiato dalle Nazioni Unite e aveva una grande importanza strategica poiché si trovava tra la città isolata e il territorio libero bosniaco dal quale si poteva fuggire mettendosi in salvo. Attraversare la pista significava morire sotto i colpi dei cecchini. Così venne costruito un tunnel (lunghezza 800 metri, altezza 160 cm e larghezza 80 cm) che passava sotto l’aeroporto e terminava esattamente in casa della famiglia Kolar. Il rumore assordante del decollo degli aerei e i fori di artiglieria sui mattoni della facciata rendono il momento indimenticabile. Mi tolgo gli occhiali da sole. Pago i dieci marchi del biglietto e percorro i circa venti metri rimasti del tunnel.
Quando sbuco fuori ho i brividi e nessuna parola. Mi sento semplicemente fortunato perché ho visto Sarajevo. Perché ho visto finalmente con i miei occhi cosa è stata quella guerra che mi passava sopra la testa. E mi sento fortunato perché non ho mai visto la guerra, ma ho sempre potuto giocare tranquillo. Mi rimetto gli occhiali da sole e guardo il cielo un po’ pallido. Accendo la macchina e per un momento esito. Dovrei andare a Srebrenica e Tuzla, ma per questa volta e per il mio stomaco basta così. Digito Mostar sul GPS e vado verso casa.
Redazione
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