responsabilità e cuore, i referti verbali e la paura dei pazienti
Sii responsabile e non avere paura. Mi viene voglia di dire così ad alcuni colleghi quando in ambulatorio incontro persone che hanno ricevuto indicazioni solo verbali da medici, senza che tali indicazioni siano state scritte e firmate su un referto ufficiale. Sembra una banalità, non lo è: quando andiamo dal medico abbiamo la necessità di essere ascoltati, compresi, visitati e dobbiamo anche ricevere un parere che abbia dentro scienza, coscienza e responsabilità personale e legale.
Questa mattina, una mattina tra le tante nel mio ambulatorio all’istituto oncologico, ho visitato una donna con diagnosi istologica benigna su una piccolissima lesione mammaria (mi occupo di tumore al seno), una donna che però non riusciva proprio a tranquillizzarsi perché la collega che, altrove, l’ha sottoposta a mammografia ed ecografia mammaria e l’ha inviata a una biopsia (risultata negativa) ha unito a un referto benigno una perplessità verbale. “Secondo me le immagini fanno pensare a una precancerosi, vada da un chirurgo senologo e chieda di essere operata”: traduzione facile da farsi, cioè non mi fido dei risultati dei suoi esami. E se non si fida il medico, e lo dichiara senza però scriverlo, figuriamoci come si sente il paziente!
Intendiamoci: può capitare. Un evento come quello che ho descritto brevemente capita, ma di solito i radiologi scrivono anche la loro perplessità perché non esiste un male nel continuare ad avere dubbi di fronte ai risultati benigni di una biopsia.
La diagnosi spontanea di un medico è sempre molto importante: è qualcosa che nasce dentro, deriva dall’esperienza e dalla voce dell’istinto. Può succedere che la voce interiore suggerisca una diagnosi diversa da ciò che gli esami mettono in evidenza. Il fatto è che un medico che ha dentro di sé una certa diagnosi deve trovare il modo per esprimerla, firmando in un referto il proprio pensiero anche quando discordante da quello degli altri: se non lo fa si sta proteggendo dal punto di vista legale perché potrà smentire il paziente attribuendo l’equivoco a cattiva memoria o errata interpretazione, ma – e questo mi importa molto di più – sta anche gettando il paziente in un baratro di dubbi, paura, incertezza, confusione. Costringe il paziente a cercare altri medici più coraggiosi, che ritornino sulla questione per poi certificare la salute o la malattia senza sussurrare niente prima del saluto sulla porta dell’ambulatorio.
Avere dubbi è lecito, anzi in medicina è l’evento più frequente, ma questi dubbi devono essere espressi con chiarezza e con decisioni strategiche nette in modo da essere utili al massimo a chi sta chiedendo aiuto per essere o ritornare in salute. Non sbilanciarsi e appesantire la psiche e le spalle del paziente con parole non riprodotte sui referti non rientra nella missione e nel dovere del medico, che è lì apposta per alleviare la sofferenza fisica e psicologica di chi gli/le si affida.
Hai gli esami a posto, ma secondo me sei malato: non lo scrivo perché non ne ho il coraggio. Messa così è brutale, ma si tratta di questo.
“Vada da un chirurgo senologo e chieda di essere operata”: la collega ha concluso così e la paziente ha percorso centinaia di chilometri per arrivare da me. Cosa significa “chieda di essere operata”? In oncologia chirurgica (più o meno in tutte le specializzazioni chirurgiche, salvo a volte la chirurgia estetica) non si va a richiedere un intervento chirurgico – non siamo al supermercato – e che sia un medico a esortare una paziente a farlo è quantomeno stupefacente. Possiamo essere evoluti quanto volete, ma la medicina è e resta una disciplina che prevede che il medico prescriva, cioè decida la cura migliore nel singolo caso: che poi il paziente abbia tutto il diritto di aderire o rifiutare avendo ricevuto ogni possibile spiegazione dettagliata è altrettanto vero, ma questo non significa andare a richiedere a un medico un trattamento come se si fosse a un distributore a gettoni. E da parte della collega c’è la deresponsabilizzazione legale: si delega a me (cioè al chirurgo di un altro ospedale) una decisione basata sul nulla, cioè su referti che sono benigni, quindi alieni da ogni necessità di intervento, e sul timore di una collega che non ho mai visto, non mi ha telefonato e neanche inviato un messaggio email. Dovrei indicare un intervento e operare una donna basandomi su parole riferite.
Al di là del singolo caso oggi, la pratica della prescrizione verbale che smentisce o modifica un referto scritto è ancora piuttosto diffusa ed è, secondo me, una palese violazione dei diritti di ognuno a ricevere, quando diventa un paziente, le migliori cure in scienza e coscienza ma anche il migliore comportamento etico e umano da parte dei medici. E, credetemi, chi scrive è un medico che molto spesso ha dubbi, ma ha anche la fortuna di fidarsi dei pazienti e dei colleghi: quando non sono sicura di qualcosa lo ammetto e chiedo. Chiedo l’aiuto dei colleghi mettendo per iscritto ciò che penso e chiedo la cooperazione attiva dei pazienti perché solo insieme si può arrivare davvero all’eccellenza della diagnosi e della cura.
Con tante battaglie che le associazioni di pazienti portano avanti meritoriamente ogni giorno, quella che chiede l’abbandono della pratica paternalistica del referto verbale sarebbe prioritaria.