Quando sorse la luna piena – 02
Oggi ho preso una decisione. Continuerò il diario. E sarà un vero diario. Mio, personale, segreto. Non più un compito da sottoporre alla signorina Griffiths, affinché riferisca i miei pensieri a mio padre. Non è cattiva Alvena, ma i suoi sforzi di essere utile, di unire le solitudini mia e di Sir William in un abbozzo di famiglia, mi infastidiscono. Sir William ha un debole per lei. È evidente. Provo a guardarla con i suoi occhi. È solida, non alta, capelli scuri, occhi scuri, guance facili ai rossori. Ordinaria, ma giovane, colta, discreta. E in grado di partorirgli un figlio che lo renda orgoglioso di chiamarsi padre. Ormai è vedovo da nove anni. Un tempo più che sufficiente per il lutto. E per dimenticare mia madre. No, sono ingiusto. Lo so che non la dimenticherà mai. Così come mai dimenticherà che è morta a causa mia. Ha bisogno di tornare a vivere, mio padre. E guarda Alvena con sguardi che anche un ragazzo come me sa interpretare. Nessuno avrebbe niente da ridire. Nemmeno io. Ma questo la signorina Griffiths non lo deve sapere e non lo saprà. Quando non è con me, il diario è nascosto in un luogo che lei non riuscirà mai a scoprire.
Le ero grato, pensò Robert con la consapevolezza dell’età adulta. E le volevo bene. Ma manifestare quel sentimento avrebbe significato rendere più sereno mio padre. E io volevo punirlo, tenerlo lontano, renderlo ogni giorno consapevole del mio disagio. Volevo la sua attenzione e non sapevo in quale altro modo ottenerla.
La carta del vecchio quaderno non era adatta al tratto deciso e già così caratteristico del Robert tredicenne. Ma gli era piaciuto intervallare quei pensieri così cupi con schizzi che più delle parole sapevano esprimere concetti che riusciva a elaborare, ma non si sentiva in grado di mettere nero su bianco. Se non in quel modo concreto, diretto, istintivo. Sapeva cosa avrebbe trovato, il Robert adulto, ma quell’enorme, crudele luna a giganteggiare sull’argine ricreata con pochi tratti ebbe l’impatto di uno schiaffo. Ritrovò la sofferenza, la spossatezza, il fazzoletto madido legato intorno alla fronte. L’incapacità di dormire.
Odio questo posto maledetto da Dio. Odio questo caldo disumano. Mi manca l’aria, giorno e notte, senza tregua. Non riesco più a dormire. Stanotte ho abbandonato l’inutile riparo della zanzariera e sono uscito sul terrazzo. La luna era talmente enorme da emanare calore essa stessa. E luce. Una luce malata, insana. Raggi innaturali densi del volo di insetti e pipistrelli a caccia. Il fiume sembrava una colata di metallo rovente. Se ne levava un miasma lattiginoso che nulla aveva della purezza immacolata e algida delle nebbie scozzesi. Il mondo sembrava reduce da uno sterminio. Silenzio. Solitudine. Desolazione. E quell’ombra. Ho smesso di disegnare nel momento in cui distinguerla mi ha regalato un brivido. Per un attimo ho ricordato la sensazione familiare del freddo. Ma un freddo dell’anima. Sembrava un fantasma in quella luminosità contro natura. Un fantasma nero, dai tratti indistinguibili, ma dalla grazia inarrivabile. Era sull’argine. E danzava. Una danza strana, guerriera, lenta. Brandiva qualcosa, forse una spada, e ne faceva il fulcro di un duello contro il mondo intero. Il miasma lattiginoso tentava di inghiottirla, ma l’ombra non lo permetteva e ogni stoccata stracciava quel velo reclamando il diritto a esistere. È stata la cosa più bella che abbia mai visto. Talmente bella che non ho avuto la forza di tentare di fermarla sulla carta. Mi avrebbe costretto ad abbandonarla con gli occhi. A perderla. Già il solo battere le palpebre mi faceva temere che si dileguasse rivelandosi irreale, frutto della mia insonnia. Invece restava e continuava la sua danza che era lotta e bellezza e grazia e forza. Ho dimenticato il caldo, il morso delle zanzare, l’aroma putrido del fiume. Sono rimasto lì, fermo, a lasciarmi inondare dalla luce bollente di quella luna straniera su una terra straniera. Niente avrebbe potuto distogliermi. Se non l’ombra stessa. Che all’improvviso si è fermata e ha assunto la mia stessa posa. In piedi. Immobile. Inchiostro di china contro un mondo oscuro e luminoso. Mi ha visto. Ancora una volta un brivido mi ha attraversato. Non potevo distinguerne le fattezze, tanto meno gli occhi. Ma ho sentito il suo sguardo superare la distanza e raggiungermi, toccarmi. Ho avuto paura. Il sudore che intride i miei indumenti da quando sono stato trascinato quaggiù mi si è gelato addosso. Ho temuto di aver compiuto un sacrilegio, di aver violato un qualche tabù, di aver spiato un demone bellissimo e malvagio come questo mondo. Non sono riuscito a ritrarmi, a nascondermi, a fuggire. Per lunghi istanti i miei occhi sono rimasti incollati a quelli, invisibili, dell’ombra. Poi l’ho vista alzare il braccio destro, quello che brandiva la spada. Mi stava salutando.
Fu quello il primo incontro con la persona più importante dell’intera sua vita. Robert pensò che non importava come sarebbe finita, quale sarebbe stato il destino di entrambi. Non importava se il tempo da trascorrere insieme potesse considerarsi già finito, se non esistesse un futuro. In quella notte lontana due solitudini si erano incontrate sotto una luna stregata. E si erano riconosciute. Non abbiamo mai avuto scampo, mormorò il Robert adulto ritrovando nel cuore l’entusiasmo del tredicenne che, all’improvviso, aveva uno scopo nella vita: vedere di nuovo l’ombra misteriosa.
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