Populismo sovrano, nel libro di Feltri quello che l’Italia vorrebbe ma non può avere
In Populismo sovrano Stefano Feltri, giornalista e vicedirettore de Il Fatto quotidiano, traccia con intransigente pervicacia ideologica un sublime affresco di quella che a suo avviso si configura come la patologica irrazionalità, la congenita insignificanza culturale, e il pericoloso vuoto tecnico-intellettuale delle istanze politiche proprie del populismo di matrice sovranista. Feltri, giovane bocconiano (al pari di chi scrive), è misuratamente persuaso (mi pare) dell’incontrovertibile superiorità della tecnica nei confronti della politica – intesa quest’ultima nel significato che le attribuiva il vecchio liberalismo dialettico-hegeliano: teorizzato da quell’aristocratico signore napoletano, Benedetto Croce, che egli stesso non si perita di citare nel suo opuscolo. Nelle pagine finali, senza sostenerla apertamente, s’avverte financo una dissimulata inclinazione spirituale dell’autore, verso seduzioni utopistiche tipiche dei teorici dell’epistocrazia totalitaria (e totalizzante): fondate sul predominio di élite (in un certo senso) illuminate, depositarie di un arcano sapere, di una sacra competenza tecnica autolegittimante.
Ha indiscutibilmente coraggio Feltri; montiano ortodosso, lucido apologeta di una dimensione arcadica dell’esistenza in un mondo totalmente globalizzato (flat world: cita con ossessiva iterazione Thomas Friedman); che mal sopporta il bisogno di riconoscimento, la viscerale tensione storica del genere umano verso la valorizzazione della dignità personale. Questi, per converso, possenti (e maggioritari) motivi interiori, alimento primigenio e fluidum deferens (direbbe Novalis) dei movimenti sovranisti; autentica base ideale della politica delle identità (identity politics).
È impossibile, scorrendo le pagine del libro, liberarsi dell’insopportabile, onnipresente e quasi fisica presenza del presupposto che muove l’autore nella sua disamina: dimostrare, avvalendosi di un’ampia letteratura scientifica, la brutale dabbenaggine, la graziosa ingenuità tipicamente aggressiva dell’elettorato sovranista; sovente (non espressamente da Feltri), e con sconcertante superficialità, descritto come gretto, incolto e non di rado apertamente intollerante verso diversità culturali o religiose, xenofobo e razzista. Caratterizzazioni necessariamente generiche, e in ogni caso inidonee alla descrizione di un fenomeno per sua natura estremamente vario. Le radici di marca squisitamente teoconservatrice, ad esempio, ovvero temi e istanze proprie del fondamentalismo evengelicale della destra americana, mal si conciliano con la Lega di Matteo Salvini, più sensibile ad una valorizzazione dell’interesse nazionale in sede europea. Per non parlare degli indicibili orrori del suprematismo bianco.
Ma come definire invece la postura di politica economica che sta caratterizzando in questi ultimi giorni il quarto cancellierato di Angela Merkel? Dopo un’apparente intesa preliminare su un piano congiunto di riforme istituzionali dell’Eurozona, Olaf Scholz neoministro delle finanze vara una legge di bilancio con significativi tagli alle spese militari e alle infrastrutture (delle quali la Germania avrebbe un disperato bisogno). E sgomenta rilevare il sacro silenzio nel quale indisturbata s’impone l’ideologia di Germany First, elegante versione politicamente corretta dell’America First di Donald Trump. Come definire l’assurdo rigore ordoliberista, di un paese che non intende in alcun modo ridurre il suo avanzo commerciale, e in pari tempo anela a mantenere un’intonazione di politica fiscale sostanzialmente restrittiva mirata ad una progressiva riduzione del debito pubblico (fino ad azzerarlo) – oggi nell’intorno del 60 per cento. Incurante fino al disprezzo delle esternalità negative nei confronti degli altri paesi.
Non è forse sovranismo o nazionalismo economico, quello della Germania? Che nel «dissidio interiore con l’Europa» cui Croce accennava, rifiuta qualsiasi meccanismo di solidarietà, sia esso uno schema comune a garanzia dei depositi, ovvero un’assicurazione europea contro la disoccupazione. E ancora: nessuna disponibilità a costituire un Fondo monetario europeo con funzioni fiscali, indipendente e sottratto all’immobilismo del metodo intergovernativo. La Germania altro non fa se non anteporre sistematicamente il proprio interesse nazionale in Europa: e ha buon gioco a farlo in quanto non v’è in quelle sedi un’opposizione sufficientemente cementata (la Francia di Emmanuel Macron sino ad oggi ha preferito i pulpiti delle cattedrali, e la grandiloquente postura jupiterienne di un presidente in fondo molto ancien regime, che non confonde la retorica a buon mercato del fondamentalismo europeista con gli interessi strategici del proprio paese). E dunque, in tutta la sua forza, si ripropone il quesito esistenziale al quale Feltri non risponde: è veramente così assurda, ingenua e infondata e folle, quella domanda di sovranità di cui egli parla con tono così insopportabilmente cattedratico?