Philippe Delerm – Aveva piovuto tutta la domenica
Leggere ciò che Delerm scrive in ogni suo libro equivale a recarsi in stazione e prendere il primo treno per Parigi. Pochi scrittori contemporanei vantano uno stile così curato e sensibile nel parlare della propria città, di una città poi di cui – come si suol dire – si è scritto ormai tutto. L’amore che nutre per ogni strada, per ogni arrondissement – mondi in miniatura in cui i personaggi vivono silenziosamente le loro esistenze – è profondissimo e totale: un sentimento puro e invidiabile, in grado di generare nel lettore una salvifica sensazione di protezione.
“Aveva piovuto tutta la domenica” è forse l’esempio più riuscito della poetica – è da ritenersi tale – di Delerm. Un titolo preso in prestito dal primo capoverso di “Le due pipe di Maigret” di Simenon, strizzando l’occhio a un eroe così letterariamente lontano eppure così umanamente simile, per certi versi, al nostro Arthur Spitzweig, di cui alla fine del libro sapremo elencare vizi – pochi, come egli stesso ama dire – e virtù.
Il signor Spitzweig è impiegato all’ufficio postale. Ha un nome curioso che spesso gli causa dei fastidi, sospira ogni tanto per un perduto amore giovanile, è irascibile su alcune questioni di principio che non importano a nessuno, vive solo e ama cucinare per sé, fuma un sigaro ogni tanto, quando morirà donerà il suo corpo alla scienza. Si concede lunghe passeggiate per l’adorata Parigi, co-protagonista di questo romanzo che ha il buon sapore dei tempi andati, tempi in cui gli uomini, lontani dalla frenesia del presente, sapevano godere di microscopici piaceri quotidiani e di sensazioni genuine, senza per questo risultare banali o sentirsi infelici.
Il rapporto con l’altro è curioso: pochi i colleghi al lavoro con cui chiacchierare, nessuno di particolarmente fidato con cui aprirsi. Una fugace, dolcissima storia d’amore con la signora dello sportello a fianco: una liaison fatta di piccole trasferte in una periferia malinconica e ventosa, con la voglia di tornare ogni volta di più nella sua Parigi, di continuare a immergersi in un dedalo di abitudini rassicuranti che in fondo non si ha alcuna voglia di lasciare.
Nel libro sembra non accadere nulla di particolare, proprio come – sostiene con cipiglio Arthur – nei suoi adorati romanzi di Simenon. Eppure, non possiamo levarci di dosso la sensazione, leggendo, che la vita del signor Spitzweig sia più unica che rara, straordinaria proprio perché composta di una sequela interminabile di sensazioni e gesti amorevolmente colti nel momento in cui accadono, nel loro donarsi al presente per poi diventare inesorabilmente passato.
Le lunghe passeggiate di Arthur sono le nostre, non importa se a Parigi non siamo mai stati. Parigi siamo noi, con le nostre sconfitte e le nostre vittorie che poste le une in fila alle altre, un giorno del calendario della vita per volta, puntuali nel renderci ciò che siamo: umani, e adorabilmente non replicabili.
Il signor Spitweig è l’eroe – l’antieroe? – contemporaneo. Nelle sue sfaccettature cogliamo echi lontani di un tal Stoner, il beniamino dei lettori nato dalla penna di John Williams nel 1965. E’ simile la malinconica indulgenza che ci coglie nel ripensare al valore evocativo delle piccole cose – di cui Delerm peraltro è indiscusso maestro – al percorso dell’anima che si snoda tra le via della città cara, al tenero fremito di lealtà con cui vengono affrontate le battaglie del quotidiano…
Una lettura diversa, tutta da sperimentare, che sa brillare di luce propria in un mondo divorato dalla noia, colpevole di farci dimenticare quanto sia la semplicità il perno attorno a cui ruota la felicità dell’uomo.
Giulia Nicoli
Redazione
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