Oltre Umberto Eco. Se fossi Gandhi sarei uno sfigato
Ricevendo la laurea honoris causa in Comunicazione all’Università di Torino, l’autore de Il Nome della Rosa, semiologo, filosofo, scrittore e probabilmente presidente di qualche repubblica in un universo parallelo, Umberto Eco, ha criticato ferocemente il web che dà il “diritto di parola a legioni di imbecilli” per poi profetizzare: “Si tornerà all’informazione cartacea”.
Una cosa molto giusta, una forse meno. E’ improbabile che si torni al consumo continuo e costante di giornali di carta ma questo è argomento spinoso e affrontato largamente in migliaia di altre occasioni. E’ però vero quanto il fatto che la Terra non sia piatta che la presunta “democratizzazione” promessa dal web si è in realtà tradotta nel Bar Sport 2.0. Tutti possono dire tutto, che non sarebbe nemmeno un grande problema. Il dramma vero infatti è che tutti si sentono in dovere di diretutto, e quindi diventano critici, esperti, letterati, politologi e criminologi.
Se è vero come è vero che si tratta, oggettivamente, di un dramma, vorrei allora fare un passettino in più e provare a identificare quello che al confronto è un cataclisma.
“La dubbia attendibilità delle fonti?” Acqua.
“La straordinaria tendenza a descrivere le cose più futili?” Fuoco.
“Il desiderio di emulazione che porta tutti a parlare del topic del giorno che qualcun altro ha deciso?” Fuocherello.
E’ il meccanismo insito nella natura di internet e di tutti i processi che abbinano la “libertà” e la “democrazia” a far sfociare nell’effetto “bandwagon” (carrozzone).
Mi spiego: internet non è per caratteristiche un mezzo inclusivo, bensì l’esatto opposto. E’ esclusivo perché avendo totale libertà di scegliere cosa fare, chi seguire, di cosa parlare, chi criticare, la stragrande maggioranza degli utenti cercheranno punti di riferimento per orientarsi. E questi punti di riferimento sono quelli che hanno già, quelli più riconoscibili. Così nascono i cosiddetti opinion leader 2.0. Se Selvaggia Lucarelli, ad esempio, da semplice blogger inizia a fare ospitate in tv come opinionista nei reality show (La Talpa, La Fattoria e non so cos’altro), io assimilo la sua immagine, la sua voce, gli argomenti che tratta (estremamente popolari in quanto espressi in trasmissioni che definire pop è poco) che contribuiscono a renderla “familiare”. Così, appena iscritto su facebook, oltre ad aggiungere sconosciuti col mio stesso cognome, amici d’infanzia persi di vista e la più bella del liceo cosa faccio? Seguo Selvaggia Lucarelli, che nel frattempo comincia a riscuotere notorietà tale da poter parlare a quello stesso pubblico di ciò che vuole: temi etici, politica, antropologia, cultura. Ma la cerchia a cui si riferisce, e la chiave di lettura fornita alle argomentazioni, resta quella “bassa”, comprensibile a tutti poiché tutti quegli interlocutori sono accomunati da caratteristiche più o meno simili. In quel modo si costruisce un influencer che non ha background, non ha titoli di studio fantascientifici e non ha un quoziente intellettivo da Nobel. Ha un pubblico, numeroso. Che nella società dell’informazione legata a internet è l’unica cosa che conta.
Questa logica delle “nicchie” vale ovviamente anche per gruppi di interesse molto più piccoli, ma non è la dimensione a svelare il trucco, sono le caratteristiche dei membri.
Un geniale spot della Telecom di qualche anno fa rappresenta invece l’esatto contrario del concetto appena espresso. Si vedeva Gandhi pronunciare uno dei suoi discorsi in mondovisione, in tempo reale, in qualità perfetta e con tutta la periodicità desiderata. Lo slogan era: “Come sarebbe il mondo se avesse potuto comunicare così?” La mia risposta è: identico a come è ora. Perché per i canoni sociali e social che abbiamo se Gandhi fosse un ventenne di oggi sarebbe considerato probabilmente uno sfigatone, uno che i bulli prenderebbero a sberle, uno al quale la bella del liceo devasterebbe l’autostima, uno che, su facebook, nessuno filerebbe. Il problema finale non è il messaggio ma il mittente e, di riflesso, il destinatario. Un segnale rivoluzionario proveniente da un signor nessuno si perderebbe nel marasma dei tweet, senza un destinatario davvero pronto ad ascoltarlo.
Gli intellettuali dei secoli scorsi avevano la possibilità di parlare a pochi, ma di illuminarli. Perché quei pochi avevano capacità e modo di apprezzarne le superiori caratteristiche, e quindi di rispettarli. Nell’era del web invece si ha l’illusione che tutto ciò che ci riguarda sia speciale e tutto ciò che riguarda gli altri debba essere “un gradino sotto”. La democratizzazione diventa intellettiva e si ha il terrore di misurarsi con qualcosa di “più alto”, con qualcuno “più alto”.
“E’ internet, baby”. Certo, è l’esempio lampante che futuro, non significa progresso.