Luciano Bianciardi come non lo avete mai visto
Gian Paolo Serino è un critico anomalo nel panorama letterario italiano.
Forse uno dei pochi che cerchi di intuire come siano andate le storie degli scrittori utilizzando materiale inedito oppure semplicemente leggendo laddove gli altri si limitano a commentare.
È l’operazione maieutica che compie con Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale (Ed. Clichy, pagg. 109, euro 7,90) in cui dice proprio così: Bianciardi è uno scrittore che tanti hanno commentato ma pochi letto davvero.
Tutti lo ricordiamo per La vita agra, romanzo di uno sradicato esploso a Milano nel 1962 per i tipi della Rizzoli, osannato da Indro Montanelli sul Corriere della Sera e finito pure al cinema con la faccia convincente e calzante di Ugo Tognazzi nei panni del protagonista nel 1964: un traduttore che si faceva strada dentro una Milano dove “non trovi persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, trovi i bacelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi”.
Questo è un libro di illuminanti intuizioni.
Bianciardi ha anticipato Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini, prima di tutto.
L’autore de La vita agra scriveva su l’Avanti! di martedì 28 luglio 1959 una specie di elogio della mediocrità di Mike Bongiorno che il 16 luglio dello stesso anno aveva presentato l’ultima puntata di Lascia o raddoppia? dal teatro della Fiera di Milano.
“Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore… ed ecco perchè lo possiamo stimare il più mediocre, quindi il più bravo”.
Tutti ci ricordiamo la Fenomenologia di Mike Bongiorno scritta da Umberto Eco nel 1961 ma nessuno – a parte Serino – si è ricordato di questo articolo di Bianciardi, uscito due anni prima su l’Avanti!, ed intitolato Mike: l’elogio della mediocrità.
Così come La Vita agra del 1962 ha anticipato Gli scritti corsari di Pasolini, pubblicati sulle colonne del Corriere della Sera ed altri giornali tra il 1973 ed il 1975. Tutti interventi dove batteva il cuore dell’angoscia metropolitana, impastato dei mali che affliggevano la società italiana, quasi fino a soffocarla di una melassa sconosciuta.
Per Bianciardi l’esistenza frenetica dei milanesi era già – nel 1962!– un qualcosa di agro, che lo faceva incazzare da morire e glieli faceva vedere come macchine adatte ad una sola bisogna: “Gli automi vendono e comprano ogni cosa;i milanesi hanno la pupilla dilatata per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono”.
Ma l’intuizione più scintillante è stato svelare “l’occhio che uccide” di Bianciardi per la televisione, di cui aveva già percepito il terribile potere inducente e soporifero. “La famiglia italiana ha sempre, a cena, un ospite e magari non lo sa… il convitato serale, anziché di pietra… è il televisore… non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, formare teste, indurre ai consumi”.
Noi oggi siamo rimasti così ed è straniante il fatto che se ne siano accorti personaggi anarchici come un Bianciardi o come un Sergio Saviane, tutti e due morti in perfetta solitudine, al freddo di un’umanità che tutto sembrava tranne che umana nei loro confronti.
Semmai fredda come un’immagine televisiva in bianco e nero.
Alberto Pezzini
Alberto Pezzini è nato nel 1967 a Sanremo. Laureato in giurisprudenza a Genova e procuratore legale dal 1995 (avvocato dal 1997), ha già maturato quasi vent’anni di avvocatura e non è ancora stanco, anche se a volte – tra iva e clienti che non pagano – vorrebbe fare soltanto lo scrittore. Collaboratore di Libero, ha collaborato prima ancora con Il Secolo d’Italia e Il Corriere Nazionale. Scrive anche per Mente Locale.