Luca Bonini racconta “Il lato opposto della pelle”
Luca Bonini nasce a Brescia nel 1974. Si laurea in Psicologia all’Università di Padova suppergiù venticinque anni dopo e sempre a Padova completa la sua prima formazione post universitaria in counseling di coppia e familiare. Guidando sull’A4 si specializza in psicoterapia al Cerp, tra Trento e Milano. Lavora nel suo studio ed in consultorio familiare con adulti, adolescenti e coppie, sulla mensola più bella ha una fotografia di Sandor Ferenczi. Un po’ fa clinica nei servizi, un po’ li dirige, un po’ insegna, un po’ fa ricerca: con questa scusa viaggia. Se non è in giro trascorre le sue giornate in poltrona. Scrive storie, le ascolta e con i suoi pazienti prova a incollare e sgarbugliare legami. Spesso per fare questo lo pagano. Ha lavorato per molti anni, e si é tanto divertito, in una comunità terapeutica per adolescenti. Cultora lo ha intervistato in occasione dell’uscita del suo libro “Il lato opposto della pelle” (Historica).
1) Il lato opposto della pelle è il suo primo romanzo: ce lo racconta?
Certo, tutto nasce da una domanda che ogni clinico si pone spesso: Si possono insegnare emozioni che non si è sicuri di possedere? Si può aiutare l’altro a guarire se non si è certi d’essere guariti?
Da qui nasce la storia di Teresa, all’inizio bambina complicata allontanata dalla propria famiglia, poi giovane neuropsichiatra, che incontra le storie dei ragazzi che urlano, piangono, scappano, si innamorano, vivono nella comunità per adolescenti in cui si ritrova, quasi per caso, a lavorare. Il romanzo si muove dal racconto in presa diretta di ciò che accade in comunità, fuori e dentro le sedute di psicoterapia, a ciò che capita a Rat e Francesca durante la fuga dalla struttura a bordo di un vecchio furgone rubato. A fare da sfondo la trasformazione di Teresa: l’incontro con l’adolescenza dei suoi pazienti rimescola, frulla, scongela; è la fatica di ogni genitore con figli di quest’età: la fatica nel sopportare la ferocia delle emozioni sbattute in faccia e l’invidia per un periodo della vita in cui tutto è ancora possibile.
Attorno i ragazzi, le loro complessità, la psicopatologia, la forza, l’azione, il raro pensare: Rat, da sempre vissuto in strutture d’accoglienza è regista delle operazioni malsane; Francesca parte alla ricerca di un padre scomparso senza lasciare traccia; Laura rimbalza tra l’amore per Marcello e i tagli profondi sulle braccia; Enrico, l’unico adolescente vivente innamorato di Berlinguer, e Deborah, impegnata a uccidere topi per non ammazzare la madre.
Poco fuori Trento, Teresa dopo il lavoro raggiunge la baita di Luciano, gestore di un rifugio SAT, uomo che sa ascoltare. Teresa condivide il proprio incespicare clinico con il dottor Baldo, supervisore dai capelli grigi a cui confida le fatiche della tecnica e le fatiche dello stare dentro le relazioni. Il lato opposto della pelle racconta di come i legami siano potenti strumenti di trasformazione e di guarigione e di come i buoni incontri ci possono rendere più capaci e liberi.
2) Quanto tempo ci è voluto per maturare l’intenzione di scrivere questa storia?
Più che un’intenzione è stato un bisogno nato subito dopo la conclusione della mia prima esperienza di lavoro in una comunità terapeutica per adolescenti. È stata un’esperienza divertente, toccante, profonda, faticosa e mi erano rimaste appiccicate troppe emozioni addosso. Così ho immaginato che trasferirle sulla carta potesse aiutarmi a fare ordine, a liberarmene da un lato, a renderle ricordi imperdibili dall’altro, come si fa quando si decide di stampare una fotografia. Con quest’idea in testa mi sono iscritto alla bottega di narrazione di Giulio Mozzi e Gabriele Dadati. Dall’essere cosciente di questo bisogno, a renderlo desiderio, dallo scrivere la prima bozza, alla condivisione e al rimaneggiamento in bottega, all’ultima versione tra mille riletture e aggiustamenti sono passati quattro anni.
3) Lei lavora come psicoterapeuta all’interno di consultori e comunità: quanta realtà e quanta finzione sono presenti all’interno del suo romanzo?
Le mie storie sono tutte inventate, è un patto troppo grande quello della riservatezza tra paziente e terapeuta per essere infranto. Ma le dinamiche che racconto sono tanto vicine alla realtà, alla magia dell’incontro che nasce in seduta, alla creatività della vita, all’essere profondi e bislacchi come solo alcuni ragazzini sanno essere. Di vero c’è, e credo emerga nella mia scrittura, un tentativo continuo di adozione, di protezione, d’ascolto, qualcosa che insomma va, in un modo che non saprei spiegare, ben al di la della questione professionale. Con molti ragazzi che ho seguito in questi anni ci si vede, si mangia una pizza, mi aggiornano sulla loro vita, su come stanno e sanno di potermi chiamare se serve. La speranza è che lo facciano. Perché come diceva Ferenczi nulla è traumatico se abbiamo vicino un adulto che ci aiuta a capire ciò che è accaduto, che gli da significato, che ci permette di risentirci al sicuro e in questo c’è molto della psicoterapia e c’è molto anche del valore dei legami tra adulti e adolescenti in generale. Ecco il mio lavoro mi ha insegnato la potenza dei legami, il loro fare cura: spero che nel libro la si possa ritrovare.
4) È stato qualche episodio in particolare che l’ha convinta a raccontare questa storia?
Più che un singolo episodio direi che quello che volevo raccontare è l’idea di cura. Volevo raccontare la forza delle ferite e quanto le nostre ferite, guarite, ci rendono unici, diventano una delle parti essenziali di quello che siamo e rendono vive le nostre storie, riempiendole di significato. Volevo raccontare quello che intendo io per cura. Aldo Carotenuto ha scritto una bellissima “lettera aperta ad un apprendista stregone” rivolgendosi a giovani psicologi che si affacciano a questo meraviglioso mestiere: in questa lettera dice che non è opportuno rimarginare completamente le nostre ferite, non è opportuno chiuderle, sigillarle. Le ferite devono divenire feritoie. Guarire, certo, smettere di sanguinare, ma restare varchi che ci consentano di affacciarci sul nostro mondo interno per vedere ed indagare ciò che è solo nostro, sommerso e misterioso.
Poi certo, di episodi ce ne sono stati molti, su e giù.
5) Ce ne parla?
Bhe, prima della comunità avevo smesso di fumare, lì ho ricominciato e non ho smesso più. Qualcosa vorrà dire. In una comunità di adolescenti come i nostri ne accadono di tutti i colori, si fanno grandi risate, si chiacchiera giocando ore a calcio balilla (credo si chiami così), si fanno sedute di psicoterapia all’ombra di un platano, si va in montagna, si sta vicino, anche per molto tempo, a chi non ce la fa perché sta troppo male. Ci sono stati episodi molto dolorosi che non cancello e a cui è facile pensare frequentemente, questi ragazzi a volte sanno farsi molto male, ma anche momenti di un’intimità e di un’intensità rara e avvolgente.
6) La sua è senza dubbio una scelta lavorativa molto intensa e arricchente: cosa l’ha portata a scegliere questa professione?
Avevo quattordici anni quando ho letto l’Io diviso di Ronald Laing e poi subito l’interpretazione dei sogni di Freud e di corsa il diario clinico di Sandor Ferenczi e da lì non sono guarito più. L’incontro con la psicoanalisi è stato un’amore a prima vista. Come per la letteratura. In comune hanno le storie, il loro racconto, la narrazione. Io li dentro mi perdo e mi piace molto. Non farei altro.
7) Per Teresa il dottor Baldo è il personaggio insostituibile con cui condividere il proprio “incespicare clinico”. Quanto lo è per lei?
La figura del supervisore è una figura preziosissima nel nostro lavoro come per me lo sono i maestri in generale. È un lavoro di bottega anche la psicoanalisi, in fondo, un lavoro artigianale dove tutto viene creato in due dentro la stanza di terapia e poi però può essere rivisto anche fuori con l’aiuto di un terapeuta anziano. È un lavoro complesso, fatto anche di tranelli, impasse, vicoli che paiono ciechi, vene auree di pensiero che possono esaurirsi. Ecco allora che l’aiuto di un terzo diventa molto utile, come ritengo utilissimi per questo mestiere una propria analisi personale, molto studio e molta ricerca.
8) Senza palesare troppe informazioni ai nostri lettori, le vicende che si intrecciano nel suo romanzo ne costruiscono a tuttotondo il lieto fine. È un dato reale? Questo lieto fine è presente nelle storie che lei incontra quotidianamente?
Per fortuna i percorsi clinici che intraprendiamo spesso finiscono bene, ma la parte più complessa e per certi aspetti avvincente del nostro lavoro è che soprattutto quando lavoriamo con ragazzi e bambini non sappiamo come le cose andranno a finire. Li seguiamo per un percorso, intenso e ricco d’ostacoli, e per un tratto i servizi (psicologi, assistenti sociali, educatori, neuropsichiatri), ci sono, noi siamo lì con loro. Poi quando crescono provano a farcela con le loro gambe, noi possiamo solo sperare, come ogni buon genitore, di avere fatto abbastanza perché riescano a cavarsela da soli. E allora io ho pensato al personaggio di Teresa perché volevo raccontare di una bambina, che all’inizio è una bambina rotta, e che poi invece riesce a diventare l’adulto che avrebbe voluto essere. Volevo raccontare di una bambina che ce la fa. Che riesce ad essere compiuta e felice.
Rosalba Ferrante
Redazione
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