Lo Stato e la mafia: quale “cosa” è più “nostra”?
È facile, in Italia, strumentalizzare anche la mafia, sostenere che “fa schifo” limitandosi a una verità assodata quanto banale. Un po’ più complesso e impopolare, forse, analizzarne il substrato storico e il patrimonio genetico. Io ho scritto (o ho provato a scrivere) di “Cosa nostra”, che di tutte le mafie nostrane e del mondo è matrice. E già il nome, “Cosa nostra”, chiarisce da sé il senso del suo DNA originario, che la re nde, prima ancora che fenomeno delinquenziale, moto di ribellione sociale e di sussidiarietà, di sostituzione, nei confronti di uno Stato storicamente assente in Sicilia, da un punto di vista materiale ma anche, aggiungerei, “emotivo”. Uno Stato che non hai mai compreso, dai Borboni alla Repubblica italiana, che il controllo non si costruisce con la sterile emanazione, dall’alto, di leggi e diktat, con il menefreghismo, l’arroganza e l’osservazione da lontano, bensì afferrando l’essenza di un territorio, soprattutto se complesso, e porgendo al popolo risposte e risorse prima ancora di chiedergli qualcosa, coccolandolo e accarezzandone, anche con il presidio e la sicurezza, con la certezza di giustizia, l’indole e la tradizione. In altri termini, facendosi avvertire come Stato amico e valore d’appartenenza, e non come il nemico, la sponda avversa, la solita mano che attinge davanti e dietro e dalla quale bisogna costantemente pararsi le spalle. Come possiamo continuare ad attribuire al popolo italiano, e ai siciliani in particolare, la mancanza di un sentimento d’appartenenza che nessuno ha mai voluto e saputo coltivare? Quindi, limitarsi a dire che la mafia fa schifo o, peggio ancora, seguitare a considerarla un problema di natura squisitamente giudiziaria, per il quale buoni e cattivi hanno facce facilmente individuabili, senza una profonda comprensione delle ragioni che l’hanno generata e continuano ad alimentarla, è l’errore più grande che possiamo ripetere; tutti noi ma, prima ancora, uno Stato fatiscente e antico, che non smette mai di atteggiarsi ad avvocato Azzeccagarbugli, con gli occhialini appoggiati sulla punta del naso e la boria di chi crede che si possa pretendere sempre senza offrire mai nulla, chissà poi sulla base di quale principio. E il senso di questa riflessione è racchiuso in quattro parole di Tonio Sgreda (TRINACRIME, Storia di un pentito di mafia – Imprimatur Editore): «Le leggi non valgono perché qualcuno le ha scritte su un pezzo di carta, all’interno di un codice, contano soltanto se racchiudono buon senso, se sanno farsi spazio nella pancia e nella testa della gente. Tutto il resto è carta straccia».
Alessandro Vizzino
Alessandro Vizzino (Latina – 1971) è scrittore ed editore. Ha pubblicato i romanzi: SIN (MJM Editore, 2011), La culla di Giuda (Edizioni DrawUp, 2012), Trinacrime – Storia di un pentito di mafia (Imprimatur Editore, 2014). Ha vinto numerosi premi letterari, sia come narratore sia in veste di poeta. Alcuni suoi racconti sono stati inseriti in diverse raccolte antologiche.