La vita nana, “un libro dedicato a chi sa fallire”
di Federica Colantoni, in Interviste, Letteratura, del 5 Dic 2015, 14:45
L’uomo che accese il primo fuoco si bruciò le ciglia, per guardare chi dal basso gli mimava i movimenti.
La vita nana è un libro particolare, pieno di quel grottesco che affascina e confonde. Quando lo si inizia non si è pronti ad affrontarlo con il giusto spirito. La vita nana è un libro che va ricominciato, ancora e ancora, finché sarà esso stesso a guidarti, parola dopo parola, verso la conclusione. È un libro che, già dopo la prima pagina, porta a pensare: “Che diavolo sto leggendo? Non può essere!”, e subito dopo: “Be’, non è poi così assurdo…”. Ed Enrico Dal Buono parte proprio da qui, dal presupposto che sì è una follia, ma lo sarà per davvero? O meglio, lo sarà fino in fondo?
«È un libro sul destino. La struttura, volutamente complessa, non è stata una scelta arbitraria: i molti personaggi e le storie che si incrociano convergono verso un unico punto. Il destino.»
Per secoli i nani sono stati considerati fenomeni da baraccone, e spesso li ridicolizziamo ancora oggi. Ne La vita nana, invece, detengono il destino del mondo.
Sì, è vero. Anche se i nani che agiscono nel mondo in realtà non li vedi operare nella loro essenza, cioè quando guidano le azioni dei grandi uomini. Li vedi, più che altro, quando falliscono. E il nano che fallisce va a lavorare al circo, diventa tutto quello che noi raduniamo nello stereotipo del nano come fenomeno da baraccone. Il circo diventa il ricettacolo dei nani reietti.
Loro vengono meno, ma in realtà sono i personaggi storici che guidano a fallire.
In un certo senso sì. La Stirpe Bastarda prende avvio proprio da questo fatto: a un certo punto, il nano − che è il doppio di tutti gli uomini, ma soprattutto dei grandi uomini − acquisisce un’individualità e allora Orestino, per primo nella storia dei nani, si rende conto che se fallisce Napoleone, fallisce lui stesso. E allora si incazza, non gli va di fare il saltimbanco, quindi decide di suicidarsi, di non sottostare al suo destino di nano. Si umanizza, da questo punto di vista.
Tra i grandi uomini, Napoleone e Hitler. Perché proprio loro?
Innanzitutto per la loro popolarità. Entrambi sono probabilmente i due emblemi, nel bene e nel male − nel secondo caso soprattutto nel male −, dell’uomo che cambia la faccia del pianeta a causa delle proprie decisioni militari e politiche. Per di più, la loro stessa parabola è difficilmente spiegabile. Sembra davvero che siano delle incarnazioni del destino: Napoleone era un borghesuccio, venuto dal niente, che si è guadagnato tutto attraverso la carriera militare diventando un dio, eppure, da un momento all’altro, con altrettanta naturalezza, inizia a perdere. Allo stesso modo, per Hitler l’essere uno sfigato − rifiutato dall’accademia di belle arti e dall’esercito − ha avuto un ruolo fondamentale e il fatto che sia riuscito a convincere un’intera nazione, tra le più civili e colte del mondo, ad appoggiare la soluzione finale ha anche questo qualcosa di inspiegabile. I nani sono esattamente l’incarnazione del destino. A questi due tentativi di anticristo ce n’è un terzo: il Gran Por, personaggio dell’ultima parte del libro, un dittatore scalcagnato di uno stato africano sfigatissimo, è allo stesso tempo buono e terribilmente malvagio.
Troppo impegnati a tagliar nastri, i Grandi della Terra, troppo imbrigliati in catene di calcoli e di relazioni diplomatiche, troppo imbalsamati nell’olio dell’ambizione. Troppo schiavi, troppo malvagi. L’Ultimo Grande sarà buono! Vorrà che il mondo intero sorrida, l’Ultimo Grande!
Alla presentazione de La vita nana hai spiegato che il senso del tuo libro si poggia sulla dialettica piccolo/grande: piccoli e grandi uomini, ma anche piccoli e grandi eventi. Spesso non percepiamo questo binomio che è parte della nostra quotidianeità, come sei riuscito a metterlo nero su bianco?
È vero, nel libro ho voluto mostrare compulsivamente come i più banali e scontati sentimenti umani siano poi quelli che, sommandosi, determinano i destini del pianeta, il quale non è altro che un’insieme di tutti i desideri delle persone. Per questo motivo, nel libro, i nani hanno bisogno di nutrirsi di cervelli ancora caldi, perché contengono gli amori, le passioni, le ambizioni di ciascun essere umano di cui si fanno caricano e li veicolano attraverso i consigli che danno ai grandi uomini per le decisioni che devono prendere.
I tuoi nani sono sia protagonisti che antagonisti: antagonisti dell’uomo, della storia e di se stessi. Si può dire che, in un certo senso, emergano nel conflitto?
Sì, esattamente. Questo libro è un’anti-saga, dove è tutto ribaltato: i piccoli sono grandi, i grandi sono piccoli e i nani, che sono i protagonisti, in realtà sono i cattivi. Quello che riveste il ruolo di buono, cioè Gigi, l’unico che voglia fermare la marcia dei nani, è colui che nelle saghe normali rappresenta il cattivo, ossia quel freno che contrasta la volontà del protagonista. Però qui, essendo tutto ribaltato, è il buono in senso morale pur esercitando la funzione narrativa del cattivo. Allo stesso modo, il trionfo è fallimento, nel libro, che è dedicato a chi sa fallire. E anche il conflitto è un anti-conflitto. Quindi sì, è verissimo.
Gigi stesso è stato consigliato da un nano.
Certo! È un po’ la riproposizione del paradosso di Edipo: andando in senso opposto al tuo destino, alla fine gli corri incontro. I nani, che rappresentano il destino, sono invincibili e la volontà di Gigi è quella di contrastarli ma, essendo un essere umano, non può farlo. A meno che tutto non si ribalti. In quanto essere vivente non può emanciparsi da quel desiderio di affermazione, distruzione, propagazione di se stesso e, contemporaneamente, non può andare in direzione opposta a quella che è la volontà dei nani. Infatti il Rappresentante, quando va a trovarlo, gli dice: “qualunque cosa lei faccia le sarò grato, mi spiego?”. Tutto il libro si basa su questa dialettica: la possibilità di scelta contro il destino.
In letteratura, se escludiamo la narrativa fantasy, i nani sono quasi inesistenti. I tuoi, pur in un contesto assurdo, risultano molto reali: il lettore è in grado di percepirli come persone che può incontrare nel quotidiano. In che modo sono reali per te?
Per riuscire a dare concretezza, carnalità, verosimiglianza a ciò che è folle, paradossale, impossibile e assurdo ho cercato di non ridurre i nani a delle macchiette: con il procedere del libro acquisiscono sempre più profondità, diventano figure a tutto tondo con contrasti interiori e dubbi. Questo perché più la spari grossa, più devi sforzarti di farla apparire reale. Ne Lametamorfosi di Kafka è ovvio che il fatto che Gregor Samsa si alzi dal suo letto trasformato in un gigantesco scarafaggio sia una grande cazzata, ma lo sforzo di inserire uno scarafaggione in un contesto assolutamente quotidiano è ciò che differenzia la letteratura, che cerca di essere tale, dalla narrativa di genere, che è un’altra cosa. Bisogna dare al lettore gli strumenti per percepire quei nani come possibili e reali, conferendo loro molta concretezza. Questo è stato un grosso sforzo, in particolare nel capitolo della trasformazione di Franza che da uomo alto 1.78 si ritrova nano, una cosa che ovviamente non può succedere nella realtà. Ho cercato di puntellare quel capitolo di sfumature nelle quali chiunque potesse riconoscersi, in modo da renderlo verosimile. La verosimiglianza è una questione di dettagli.
Tu che sei colui che non voleva, il nano prodigo, l’umano apostata, il nano anfibio.
I tuoi nani sono dei gran bastardi e alla presentazione del libro Nicolai Lilin ha mostrato una certa invidia nei loro confronti proprio per questa qualità.
Questo è il conflitto che si trova ad affrontare proprio Franza: da un certo punto di vista ha orrore di se stesso, ma da un altro si rende conto che abbandonandosi completamente a quell’istintivo desiderio di prevaricazione, di cannibalizzare l’altro, di autoaffermarsi potrà lasciarsi alle spalle il senso di colpa e tutte le remore che contraddistinguono la sua personalità. Fallire o essere un mostro? Non ci sono alternative, perché nel momento in cui scendi a patti con il flusso della vita, che, in diversa misura, si basa sul conflitto e sulla prevaricazione, diventi un mostro; se non lo fai, fallisci.
La vita nana è descritto come il tuo esordio, ma in realtà c’è un altro libro che è Come fratelli. Ci sono punti in comune tra i due?
La vita nana è il primo romanzo che considero il mio “manifesto”, il primo libro a cui tengo veramente. L’altro era una sperimentazione, una raccolta di racconti. Il punto in comune penso che sia il mio sguardo sul mondo, uno sguardo un po’ deformato e deformante. A me piace storcere e distorcere le cose e ho una certa predisposizione all’ironico, al grottesco, che deriva molto dalla letteratura russa, partendo da Gogol arrivando fino a Bulgakov. Mi sento abbastanza vicino a quella maniera di rappresentare il mondo, spingendone all’estremo i paradossi e le contraddizioni, cercando di trasfigurarlo non per nasconderlo bensì per mostrarne la follia, l’incongruenza con maggiore intensità.
Prima Kafka e ora gli autori russi. Sono loro a cui fai riferimento?
Nel libro ci sono dei pastiche sia di Guerra e Pace che di Madame Bovary, perché le letterature russa e francese, ma anche quella americana del ‘900, sono probabilmente quelle che mi hanno condizionato di più. Se dovessi scegliere, pistola alla tempia, il mio autore preferito direi Dostoevskij: quel suo tentativo di mettere in scena i conflitti dell’animo umano attraverso le incarnazioni di paradossi, pur in maniera diversa, è stato per me una rivelazione, ciò che quando l’ho letto mi ha fatto decidere di fare questo nella vita.
La vita nana di Enrico Dal Buono
Baldini&Castoldi
352 pagine
16.00 €
Federica Colantoni
Federica Colantoni nasce a Milano nel 1989. Laureata in Sociologia all’Università Cattolica nel 2013, pochi mesi dopo inizia il percorso di formazione in ambito editoriale frequentando due corsi di editing. Da dicembre 2014 collabora con la rivista online Cultora della quale diventa caporedattrice. Parallelamente pubblica un articolo per il quotidiano online 2duerighe e due recensioni per la rivista bimestrale di cultura e costume La stanza di Virginia.