Il vero erede di Tolkien? Stephen King. Così decreta una studioso americano

King

Non servono gli anniversari – quest’anno, per dire, sono gli 80 dalla pubblicazione de Lo Hobbit – per parlare di J. R. R. Tolkien e della sua opera, indubitabilmente tra le più magnetiche e influenti del Novecento. Su The American Conservative lo studioso statunitense Bradley J. Birzer, con bussola conservatrice nel cervello e diverse pubblicazioni in teca (ha raccolgo i Political Writings di James Fenomore Cooper, ha scritto J. R. R. Tolkien’s Sanctifyng Myth: Understanding Middle-Earth e una niografia su Russell Kirk: American Conservative), redige una articolessa, Out of the Shire: Life Beyond Tolkien, in cui fa una riflessione e si pone una domanda. La riflessione è questa: Tolkien è la quintessenza del Romanticismo contemporaneo. Premessa per italocentrici: il Romanticismo inteso da Birzer proviene dall’Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello pubblicata da Edmund Burke nel 1757, che è, cioè, “profondamente conservatore nel suo elogio degli antenati, nella sua idealizzazione del passato, nella sua ammirazione verso i costumi popolari, profondamente ‘sacramentale’, come una grande saggezza che aleggia nelle persone”. Tuttavia, ci dice lo studioso, “come tutte le cose buone, anche il Romanticismo può essere pervertito”: così, “l’affetto verso il passato può tingersi di idee reazionarie, irrazionali, può dilagare nel panteismo; l’amore verso il popolo può mutarsi in nazionalismo e magari anche in fascismo”.

pangea

Messi i paletti arriva la conclusione: Tolkien “è la massima espressione di un vero romanticismo nel XX secolo”. Amante del mito – i romantici riscoprono le saghe e il valore del Medioevo – alfiere dei ‘valori’, seguace del bene, insomma, Tolkien è un conservatore fatto e fiero. Poco importa, ci dice Birzer, che il mondo tolkeniano, passato in mani “un po’ troppo oscure e non cristiane” abbia creato Dungeons & Dragons e i Led Zeppelin, d’altronde, “la musica dei Led Zeppelin ormai è parte della civiltà occidentale, come Beethoven” (che fu, tra l’altro, influenzato da Burke). Detto questo la domanda sorge spontanea: “e dopo Tolkien?”. Anche la risposta, dopo qualche caustico aforisma azzeccato – “in effetti, oggi come oggi, in letteratura più che il buono o il diabolico vince il mediocre” – e qualche consiglio etico (non leggete Philip Pullman: “abbastanza talentuoso, indebolisce, sovverte e perverte gli elementi cristiani della fantasia tolkeniana”) è spontanea (e scontata): “nessuno ha raggiunto la qualità letteraria degli scritti di Tolkien, sia nelle brillanti storie per bambini (come Lo Hobbit) che nella sua vertiginosa fantasia, come nel Signore degli Anelli e nel Silmarillion”. Nella sua analisi, Birzer riconosce che “di tutti i romanzieri del XX secolo, solo Ray Bradbury si avvicina a eguagliare i poteri letterari di Tolkien”. Venendo all’oggi, è il deserto degli elfi. J. K. Rowling è una pia donna che ha avuto una idea di successo, ma i libri di Harry Potter, “inesorabilmente divertenti e perfino intelligenti, non si leggeranno più tra un secolo”. Quindi? La quintessenza tolkeniana è raccolta, a dire dello studioso, dai racconti Russell Kirk, l’ideologo del conservatorismo americano, che ha scritto “alcuni dei più potenti racconti del secolo scorso, che mescolano l’immaginazione di Ray Bradbury alla moralità di Flannery O’Connor” (non tradotti in Italia, però, e sarebbe bene, alla luce di una didascalia così seduttiva, colmare la falla editoriale). Altrimenti… tocca leggere Stephen King…