Il Sommo Dante, l’uomo prima del poeta nel romanzo di Santagata
Come donna innamorata, il romanzo di Marco Santagata finalista del Premio Strega, ripercorre le tappe più importanti della vita di Dante Alighieri evidenziando le passioni umane che l’hanno condotto oggi, a noi, con la nomea di Sommo Poeta.
Nella prima parte, dedicata a Bice, il lettore è diviso tra il presente e il passato di Dante. Qui prendono vita i ricordi della sua gioventù: il primo incontro con Beatrice, la formazione presso Brunetto Latini e l’amicizia con Guido Cavalcanti, il suo punto di riferimento, colui che gli ha permesso di maturare come letterato. Dante sta prendendo consapevolezza del suo talento, e inizia a formarsi la propria identità di poeta.
Siamo nel 1294, 8 giugno, Dante riporta alla mente gli eventi di 4 anni prima quando la sua musa, Beatrice Bice Portinari, morì. Immerso in un turbine di pensieri e ricordi, Dante, seduto al tavolo con penna e calamaio in mano, lavora a una delle sue opere più significative che intitolerà Vita Nova, autobiografia e elogio del suo amore per Beatrice. L’amore di un uomo che ha fatto Santa la sua amata.
Il Dante di Stantagata è un Dante che costantemente si interroga sulla propria inclinazione per questa donna conosciuta da giovinetta e che, da allora, è sempre stata oggetto della sua opera.
Una musa, non una donna, è Beatrice per Dante, tanto che la disperazione per la sua morte si traduce in crisi esistenziale per il poeta: chi animerà le sue poesie, ora che Beatrice è morta?
“«Dante, la nostra Bice vive in Cielo e nelle tue poesie». Un guizzo di felicità gli serpeggiò per tutto il corpo.”
Perfino di fronte all’eterno riposo dell’amata, ciò che conta è la poesia. E dunque, ora che è morta, non resta che renderla immortale. Santagata descrive un Dante profondamente vile ed egoista, che si nasconde dietro la “divinità” della sua opera e della sua scrittura per elogiare se stesso ed erigersi a “Messia del dolce stil novo”, atteggiamento che lo porterà a tradire il suo grande amico e consigliere Guido Cavalcanti.
A lui è dedicata la seconda parte del romanzo, qui il lettore assiste a una profonda frattura: Dante, cieco e arrogante, contro le aspettative dell’amico prende parte alla vita politica di Firenze e subisce gli eventi che condurranno entrambi all’esilio. È un uomo dall’ambizione incontrollabile, il successo derivato dalla Vita Nova non è sufficiente, serve di più a Dante per diventare “la massima autorità morale e culturale di Firenze e, da quell’altezza, indirizzare i concittadini sulla strada della virtù”; così volta le spalle al suo compagno, alla sua famiglia, e agli alti princìpi che ha fatto suoi negli anni: “aveva accettato di farsi uomo di parte pensando in cuor suo che quello fosse solo l’inizio, il passo necessario per diventare un giorno uomo di pace al di sopra delle parti”.
Dante crede veramente nel potere pacificatore di poesia e cultura, ma è uomo prima che poeta e in quanto tale è guidato da insicurezza, vanità e risentimento, tanto che al momento di salvare l’amico dall’esilio l’unico sentimento che lo invade è la vendetta: “Per Guido sarebbe stata una umiliazione più cocente dell’esilio stesso. Lui, l’uomo del malaffare, l’avrebbe ascoltato impassibile, con sguardo severo ma l’occhio sereno di chi amministra la giustizia. E alla fine lo avrebbe graziato.”
Ormai esiliato, nel 1314, scrive la sua Commedia mentre ha memoria dell’ultimo periodo trascorso a Firenze. I ricordi sono amari, pensando a Guido Cavalcanti, ma è consapevole che sta per raggiungere il suo scopo, portare e ritrovare la pace attraverso la sua opera: il viaggio in Paradiso con Beatrice è un viaggio di ritorno a Firenze, nel luogo della sua gioventù quando si è elevato a Messia.
Un libro, quello di Santagata, profondamente reale e ben romanzato, scorre veloce tra le mani del lettore che quasi rischia di leggerlo con disattenzione ma che mostra la vita del poeta in una Firenze in bilico tra cultura e politica, anima e corruzione.