Il presente non basta: Ivano Dionigi ci spiega cosa può ancora insegnarci il latino
di Giuseppe Di Matteo, in Letteratura, Recensioni, del 4 Apr 2017, 13:34
Nell’era del web planetario e dell’interattività il presente sembra aver dilatato i confini a dismisura tagliando il suo cordone ombelicale con il passato e inghiottendo il futuro. Il rischio è quello di scadere in un provincialismo del tempo, per utilizzare le parole del poeta T.S. Eliot, dove la storia non è altro che «la cronaca delle invenzioni umane e il mondo proprietà esclusiva dei vivi».
“Il presente non basta – La lezione del latino” (Mondadori), di Ivano Dionigi
Ma il presente da solo non basta. Lo avevano già compreso gli umanisti, che cominciarono a ricercare le proprie radici riscoprendo lo studio del latino e dei classici, e prima ancora Petrarca, il primo ponte sospeso tra gli antichi e i moderni, che si immaginava «collocato al confine di due popoli con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro». Non a caso il suo discorso, tenuto in Campidoglio l’8 aprile 1341, è considerato il primo manifesto del Rinascimento. Settecento anni dopo, i classici non hanno ancora abdicato al ruolo di padri spirituali e il latino continua a essere una bussola indispensabile per provare a capire chi siamo. Eppure, da decenni è soggetto a un «processo di rimozione», dovuto a un pregiudizio ideologico, che a partire dagli anni Cinquanta ha bandito il latino dalla scuola dell’obbligo perché considerato una lingua elitaria, al servizio del potere, ma anche a un progressivo impoverimento da ricercare in una sorta di «accanimento grammaticale» che lo avrebbe ridotto a una summa di regole senz’anima.
Lo spiega molto bene il latinista Ivano Dionigi, presidente della Pontificia Accademia di Latinità e autore de Il presente non basta – La lezione del latino (Mondadori), un pamphlet densissimo che ricostruisce la biografia di una lingua che l’Europa ha parlato ininterrottamente per oltre venti secoli attraverso la politica, la religione e la scienza. Ma quello di Dionigi è soprattutto un guanto di sfida lanciato al presente come unico orizzonte possibile, che del latino crede di potersi sbarazzare in nome della cultura della tecnica e del primato del fare. Nulla di più fallace, spiega l’autore, perché l’immenso patrimonio culturale del latino, racchiuso in alcuni codici fondativi del nostro pensiero occidentale e negli oltre trentamila termini dei quali è corredato il nostro vocabolario quotidiano, può essere un alleato prezioso della modernità, e in particolare della tecnologia, chiamata a fornire risposte immediate ma sostanzialmente priva di quell’ars interrogandi che appartiene ai classici ed è la sola in grado di aiutare i moderni a porsi domande accettabili senza lasciarsi irretire dal feticcio della novità da perseguire a ogni costo. «L’intellettuale del futuro mi fa pensare a un ingegnere rinascimentale», puntualizza l’autore rispolverando un’espressione efficace di Steve Jobs.
Secondo Dionigi sono tre le lezioni che il latino ci ha lasciato. In primo luogo, la centralità del tempo, che per i Romani non aveva nulla a che vedere con la nostra ossessione nei confronti del presente, ma era profondamente legata al culto del mos maiorum, i costumi degli antenati. Un modus operandi che si è via via sedimentato anche a livello linguistico attraverso continue rimodulazioni che seguono le orme di una civiltà capace di assimilare i costumi dei popoli vinti e arricchire il proprio Pantehon con i nuovi dèi, nel segno di quell’et et che si contrappone all’aut aut della cultura contemporanea, incline a soppiantare più che ad arricchire.
Ma il latino si rivela anche un serbatoio fondamentale per riscoprire il primato della parola, oggi appiattita sul linguaggio estemporaneo della comunicazione e orfana del suo imprinting semantico, custodito nella radice etimologica dei nostri vocaboli e che proprio al latino deve gran parte della sua forza espressiva. «Il latino vive un malinconico paradosso – sottolinea Dionigi – vale a dire quello di essere una lingua morta eppure molto resistente nel nostro uso comune, e soprattutto metamorfica, che si lascia calcare dalle impronte altrui, a differenza dell’inglese, idioma universale ma stereotipato». Non solo. Perché la parola non si limita a racchiudere un significato: può tutto, persino decidere le sorti dello Stato, come notava Cicerone nell’Invenzione paventando il pericolo dei demagoghi. L’ultima lezione fa invece riferimento alla nobiltà della politica, oggi derubricata a mero protagonismo, ma che per i Romani era l’attività più alta alla quale potesse tendere un uomo e si identificava con la res publica, la cosa pubblica, in antitesi al privato. «I nostri politici avrebbero molto da imparare dai Romani e dall’usus maximus virtutis, che guardava anzitutto al bene comune – conclude Dionigi -. Il latino ci serve ancora molto. Proprio per questo dovremmo smettere di idolatrare il presente e volgere lo sguardo anche al passato. Perché solo così avremo consapevolezza del futuro e delle sfide che ci attendono».
Giuseppe Di Matteo
Giuseppe Di Matteo è nato a Bari nel 1983 e vive a Milano. Laureato in Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha dapprima frequentato il corso di laurea triennale in Scienze Storiche e poi quello di laurea specialistica in Storia delle civiltà e delle culture dell’età moderna e contemporanea. Nel 2011 ha conseguito un MA in Historical Research presso il Birkbeck College – University of London, e nel 2012 ha vinto il concorso di accesso alla Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia, diventando professionista nel gennaio 2015. Attualmente collabora con il Giorno e la Gazzetta del Mezzogiorno. Nel 2016 ha pubblicato il libro di poesie “Con te io penso con le mani” (Aletti editore).