il diritto alle cure e le parole che uccidono
Inizio il post porgendo le mie scuse ai lettori: sono stata assente troppo da questo blog e mi dispiace. Il fatto è che ero immersa nella scrittura del romanzo nuovo. Quando scrivo una storia divento i suoi protagonisti, sono così dentro lo svolgersi degli eventi e le emozioni e i sentimenti che il tempo diventa un’appendice della scrittura, un suo contenitore che però non basta mai. E la mente non concepisce altro. Chiedo scusa, quindi, e vi abbraccio per salutarvi ora che sono ritornata.
Oggi vi parla il medico e tra le tante suggestioni dei giorni ne colgo una, un evento tra i mille in ambulatorio. Accade che tra le persone che seguo (che il linguaggio tecnico vorrebbe che chiamassi “pazienti” ma è una parola che non mi piace) c’è una donna molto interessante: è un’artista la cui creatività riempie di bellezza tante mostre, sa ascoltare con attenzione e sensibilità e quando parla va dritta al punto senza sbagliare un colpo. Priva di eccessi e retorica, centra il problema come un cecchino e sa cogliere le sfumature dell’anima di chi le sta di fronte come se leggesse un codice ignoto ai più. Però c’è un piccolo dettaglio: ha una diagnosi di autismo e schizofrenia.
Ora, credo sia utile sapere che chi dedica molta parte della sua vita ai cosiddetti pazienti si abitua in fretta a perdere le categorie banali della massa: non sa più cosa significhi “normale”, non cerca soluzioni preconfezionate, smette dopo un anno di pratica post-laurea (al massimo) di credere che la salute e la malattia rispondano ai criteri elencati nei libri. Bene, una diagnosi di autismo e schizofrenia resta comunque un problema spesso, una di quelle cose che non puoi liquidare così in tre parole.
Accade che questa donna, con cui mi dilungo piacevolmente in chiacchiere (io chiacchiero e lei ascolta con occhio vivace e, se serve, interviene), abbia ricevuto alcuni anni fa una mastectomia: l’avevo visitata al tempo del primo tumore e avevo prescritto una mastectomia con ricostruzione con chirurgia plastica. Per ragioni organizzative della donna l’intervento era stato poi eseguito in un ospedale differente dal mio e, quando avevo rivisto la paziente, avevo notato che la ricostruzione non era stata fatta. La signora era senza seno (tendo a notare dettagli come questo, e voi?). Motivo della mancata chirurgia plastica: la diagnosi di autismo e schizofrenia.
La storia prosegue e negli anni la donna sta bene, assume terapie per la diagnosi psichiatrica e queste terapie la rendono ogni tanto un po’ più assente, ma l’assenza si esprime con uno stato di vigile quiete: si deve solo aspettare un po’ di più (questione di uno, due minuti) per ottenere una risposta che comunque è sempre pertinente. E vuole la ricostruzione del seno perché è giovane e non le va di restare senza. La sua pelle è molto tonica e sana, non ha patologie organiche che controindichino la chirurgia, ha chiare le possibili proposte chirurgiche e i loro effetti collaterali; la madre, tra l’altro, è sempre presente agli incontri e ribadisce e conferma ciò che a me sembra del tutto ovvio: la donna avrà anche una diagnosi scritta sulla cartella clinica con i relativi problemi a livello psichico e comportamentale, ma ha capito benissimo cosa significhi ricostruirsi un seno. Il fatto è che quella diagnosi lì sta in alto sulle cartelle cliniche, e ogni peregrinazione dai chirurghi plastici si blocca sulle parole.
Nella visita di controllo più recente ho copiato pari pari dal referto precedente la prescrizione di visita per chirurgia plastico-ricostruttiva, specificando che la donna ha una diagnosi di autismo e schizofrenia ma a mio parere è perfettamente in grado di decidere se farsi operare o meno. Oh, poi per carità: un chirurgo può rifiutarsi di eseguire un intervento se non si sente sicuro, ma mi chiedo quale sia la motivazione vera nel caso di questa donna. E’ giovane e sana, il cancro non è ritornato e gli esami del sangue sono perfetti. Non ha torturato animali o esseri umani, non ha crisi di violenza, non manifesta altro che uno stato di quiete che non le impedisce di partecipare a un colloquio nei dovuti modi che rispettino le sue modalità espressive. Perché dovrebbe restare senza seno?
Di chi è il corpo di una donna con una diagnosi psichiatrica? Chi ne dispone e chi decide se questa donna abbia il diritto di ricevere un intervento che la aiuterà a stare meglio, un intervento che desidera e di cui ha compreso la complessità? Non spiegatemi la legge, la conosco molto bene e non è questo che cerco ragionandone qui. Cerco l’intelligenza e il cuore. L’intelligenza che ci porta ad ascoltare, a osservare una persona al di là di ciò che il pregiudizio ci suggerisce, il cuore che dovrebbe dirci in ogni istante che si può e si deve andare più in là. E provare a identificarsi con chi abbiamo davanti.
E’ difficile per me accettare che si stabilisca a priori chi ha diritto a un trattamento a scopo psicologico ed estetico e chi no: non stiamo parlando di infilare due protesi per aumentare la taglia di una giovane donna sana che ha voglia di diventare più bella, ma di riparare l’esito di una mastectomia (non so se avete presente). Soprattutto mi sembra assurdo che ci si fermi a tre parole stampate su una cartella clinica e non si cerchi di comprendere la persona, non si indaghi se per caso sia possibile offrirle una migliore qualità di vita. Nella mia esperienza ormai ventennale ho capito che non tutte le donne accettano una ricostruzione dopo una mastectomia, e non tutte le donne accettano di restare senza seno: siamo diverse, e la bravura dei medici risiede anche nell’intuire chi e quando possa ricevere un beneficio da una cura. A patto che non ci sia una diagnosi di autismo e schizofrenia, o no?