Fotografia, scrittura, selfie e narrazione: l’evoluzione del reale
La fotografia è anche racconto. L’immagine è diventata sempre più importante, non solo nel settore pubblicitario e giornalistico, ma come forma comunicativa che parla di noi, di chi siamo, dei nostri gusti. La fotografia ha sempre avuto importanza narrativa. L’immagine pubblicitaria propone il prodotto, le sue peculiarità e tende a scatenare nel consumatore una serie di desideri che devono portarlo all’acquisto. La fotografia giornalistica, attraverso i reportage, ha un posto di primo piano per documentare il reale, ma anche per raccontarci cosa sta succedendo nel momento dello scatto, per narrarci una storia. Abbiamo consumato migliaia di immagini “pubbliche” che raccontano una storia per il lettore di giornali, per le campagne pubblicitarie, per le riviste. Le fotografie private, quelle che riguardavano i nostri famigliari, gli amici, i matrimoni, i compleanni, rimanevano in casa, venivano raccolte e mostrate con un senso di intimità che adesso pare non esistere più. Quando si guardavano i vecchi album fotografici, ci si riuniva e di ogni foto si raccontava la storia, il momento, gli aneddoti che l’avevano caratterizzata.
“Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e che per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.” Così scrive Italo Calvino in un racconto “L’avventura di un fotografo” scritto nel 1955. La novella è contenuta nella raccolta “Gli amori difficili” pubblicata per la prima volta nel 1958. Con l’avvento dei social media come Facebook e Instagram la fotografia ha perso il valore intimo e privato che la caratterizzava, si è aperta al mondo, è diventata pubblica. Le fotografie pubblicate sui social raccontano una storia privata che viene esposta a tutti. Gli stili narrativi si avvicinano sempre di più ai canoni pubblicitari. Quando ci facciamo un selfie deve essere il più bello perché deve affascinare e attrarre chi lo guarda. Così come quando stiamo pubblicando le foto di un matrimonio o di un evento tendiamo a farne inconsapevolmente un reportage, per far capire a chi sta guardando cosa stava succedendo nel momento dello scatto.
Tutti noi siamo diventati narratori attraverso l’immagine, cosa che fino a qualche tempo fa era prerogativa solo dei professionisti del settore. Art tribune in occasione della festa delle donne dell’8 marzo ha organizzato su Instagram una campagna di sensibilizzazione sui temi femminili e sulla fotografia al femminile #gliscattidelledonne. Questa iniziativa coinvolge donne e fotografe che abbiano voglia di raccontarsi con uno scatto. La narrazione attraverso la fotografia ha rapito e affascinato da sempre scrittori famosi come Jack London che scattò più di dodicimila fotografie in sedici anni. Chiamava le sue foto “documenti umani” e le teneva in conto come un romanzo, un pezzo giornalistico. Anche Giovanni Verga amava e usava la fotografia e poneva in essa il verismo narrativo che lo contraddistingueva. Émile Zola prima di scrivere si documentava anche usando la fotografia. Lewis Caroll era un appassionato fotografo e si dice che il personaggio di Alice in “Alice nel paese delle meraviglie”, fosse una bimba che aveva posato per lo scrittore. Le fotografie di Allen Ginsberg sono molto amate da Bob Dylan in cui ritrova la poetica della beat generation. Anche noti scrittori italiani contemporanei sposano l’arte fotografica come Silvio Perella e Alessandro Baricco che ha fatto un lungo reportage delle sue foto di viaggio per “Repubblica” nel 2015. La foto di copertina è tratta da “Repubblica” ed è uno scatto di Baricco che la commenta così: “Overture. Mi preme ricordare che la disposizione degli animali in un pascolo è una forma d’arte, benché non sia chiaro a chi se ne possa attribuire la paternità. Secondo me i più bravi al mondo sono, comunque, quelli che dispongono gli ovini nei pascoli del Galles: lì ho visto dei veri capolavori”.