Ecco perché con l’acquisto di Rizzoli da parte di Mondadori non cambia nulla
Ora è ufficiale. La trattativa di cui si parlava da mesi nel mondo editoriale italiano, l’acquisto di Rizzoli libri da parte di Mondadori, è andata a buon fine per 127,5 milioni di euro. Nasce un gruppo editoriale tra i più grandi d’Europa che, oltre alle due case editrici madri, è proprietario di alcuni marchi storici come Einaudi, Piemme, Sperling, Bompiani, Marsilio, Fabbri…
Un colosso che, solo leggendo il fatturato, il numero di dipendenti, le novità pubblicate, spaventa per la capacità accentratrice in un mercato editoriale che, non dimentichiamolo, è tra i primi dieci al mondo.
Così l’acquisizione di Mondadori è stata vista dall’opinione pubblica – seppur quella minoranza che si interessa di cultura e quella minoranza della minoranza attenta all’andamento del mercato editoriale – come un’operazione mostruosa destinata a sconvolgere l’andamento dell’editoria nel nostro paese, a limitare la libertà di stampa, a stritolare gli editori indipendenti. Insomma: una catastrofe.
In realtà non è così e non cambierà – quasi – niente, almeno per i piccoli editori e per i lettori intelligenti che spaziano tra titoli pubblicati dai grandi editori e quelli degli editori indipendenti.
Mondadori e Rizzoli continueranno ad avere la stessa quota di mercato – seppur in un’unica struttura – non incidendo sulla nicchia di lettori forti che predilige un altro genere di pubblicazioni. Chi soffrirà saranno invece i competitor diretti, come Giunti o Feltrinelli, che si troveranno a dover fronteggiare una struttura in grado di poter applicare alle librerie condizioni di vendita a proprio piacimento e in grado di influenzare – anche politicamente – l’andamento del mercato editoriale italiano.
Già ad oggi le percentuali e il meccanismo della distribuzione nazionale in libreria sono deleteri per un editore indipendente e chi non è stato in grado di crearsi un circuito di vendita alternativo è destinato a scomparire, a prescindere dalla nascita di “Mondazzoli”.
Fanno invece sorridere le previsioni catastrofistiche che evocano “la fine della cultura in Italia” , “la fine del pluralismo” o “la fine della libertà di stampa”. I lettori forse hanno la memoria corta; quando nel 1994 Mondadori rilevò Einaudi evitando di fatto che il marchio scomparisse sommerso dai debiti, i toni erano gli stessi.
Einaudi ha invece continuato a mantenere una sua identità seppur annacquata da pubblicazioni realizzate più per fare cassetta che per portare avanti un progetto culturale.
A tutti piacerebbe pubblicare monumentali enciclopedie ma non dimentichiamoci che un editore è anche un imprenditore e, volenti o nolenti, i conti devono tornare. Occorre, e qui si vede chi è un bravo editore, coniugare le esigenze del catalogo con quelle del mercato, fare libri di qualità che siano vendibili, altrimenti si imbocca la strada più rapida per il fallimento.
In realtà la nascita di un grande polo editoriale italiano segue le tendenze internazionali. Già nell’estate 2013 era avvenuta la fusione tra la Penguin Books e Random House dando vita alla più grande casa editrice al mondo con ben 250 marchi. Si obietterà che si è trattato di una fusione dove Pearson (proprietaria di Penguin) ha ottenuto il 47% e Bertelsmann (proprietaria di Random House) il 53% e non un acquisto a senso unico come avvenuto in Italia, ma il concetto è lo stesso: se si vuole sopravvivere agli stravolgimenti in atto nell’editoria, al calo di fatturato ed essere competitivi in un mercato che sta diventando sempre più internazionale, la strada è solo quella della fusione, almeno per i grandi gruppi.
La soluzione per far sopravvivere il pluralismo nel nostro paese esiste, si chiama bibliodiversità, e si sostiene acquistando i libri di editori di progetto.