Da Hegel a Twilight: la lettura impegnata fra ieri e oggi
Tale Emily Colette Wilkinson pubblicò quasi dieci anni fa una lista, da lei redatta, nella quale si indicavano i dieci libri più ostici in assoluto. Fra questi − scelti sulla base di lunghezza, sintassi, lessico e complessità delle tecniche narrative − comparivano La fenomenologia dello spirito di Hegel, Essere e tempo di Heidegger, Gita al faro della Woolf e altri capolavori di analoga fama. Molti di questi volumi, noti ai più per parziali e spesso mal incentivate letture scolastiche, erano e sono dei capolavori la cui validità, contenutistica e non solo, è generalmente indiscussa e condivisa.
Nel corso degli anni, però, l’idea di lettura impegnata ha subito delle modificazioni, e se prima per utilizzare una definizione del genere era necessario scomodare Heidegger, oggi basta un qualsiasi saggio storico (seppure breve) a creare serie difficoltà in una fin troppo consistente fetta di lettori. Causa (o conseguenza?) di tale cambiamento è un vertiginoso abbassamento della soglia di difficoltà percepita, che va inducendo un pubblico sempre più ampio a preferire letture decisamente più leggere.
Considerazioni di questo tipo prevedono necessariamente premesse specifiche, che portino ad accordarsi su cosa si intende per lettura impegnativa e non, cercando delle definizioni univoche seppure invadendo la sfera del soggettivo e del gusto personale. Anzitutto: quali fattori rendevano e rendono un’opera tale? Quali parametri possono e devono essere utilizzati per definirla? E chi o cosa, invece, offre la rassicurante speranza di una lettura cosiddetta leggera?
Seppure le peculiarità squisitamente tecniche siano solitamente utilizzate quali parametri principali, accade di frequente che l’apparenza inganni, e non sempre caratteristiche evidenti, come la lunghezza, sono una sincera espressione di complessità. Chi considererebbe il breve Siddharta di Hesse meno impegnativo della ben più consistente saga di Twilight (o anche solo del primo dei volumi della quadrilogia)?. Discorso analogo per sintassi e lessico, che seppure forbito può fare da contorno a una materia francamente meno incisiva e facilmente avvicinabile. Difficile, quindi, accordarsi o sfruttare questi paletti, ed è forse più utile tenere temporaneamente come linea guida quella tradizionale divisione in generi impegnativi (romanzi o saggi storici, filosofici e affini) e non (noir, gialli, romanzi rosa).
Ci si può approcciare più facilmente a un’analisi di questo tipo partendo dai dati, e da quell’opinione comune, diffusa e comprovata secondo cui, negli ultimi tempi, l’avvicinamento alla lettura pare sempre più difficile. O meglio: tutti leggono (i dati sull’alfabetizzazione sono poi generalmente incoraggianti) e lo fanno di continuo: si pensi alle centinaia di sms, messaggi, e-mail scambiate quotidianamente, o ancora alle decine di notizie in breve che, sponsorizzate sui social, vengono continuamente digerite – ma pochi (pochissimi) si dedicano a letture più approfondite, o addirittura evitano di andar oltre i titoli stessi delle notizie poc’anzi citate (e da qui commenti, fraintendimenti e prese di posizione fuori luogo del tutto prive di fondamenta… Ma questa è un’altra storia). Si ottiene quindi, nei fatti, una generalizzata predilezione per testi brevi, pratici e trattanti argomenti banali (o meglio facilmente banalizzabili, in luogo di argomentazioni che inducono necessariamente a una riflessione più personale).
Proprio questa palese difficoltà di concentrazione è alla base del discorso iniziale, a sua volta strettamente legato a un’altra considerazione: quanto la produzione letteraria recente − soprattutto quella “di successo” − è condizionata da un pubblico con un “limite” di questo tipo, e quanto, di riflesso, la suddetta produzione condiziona essa stessa questo pubblico? Per meglio dire: l’incredibile successo di saghe come Twilight o Cinquanta sfumature di grigio è espressione di un sentimento di per sé formato, o è stata la loro pubblicazione − commercialmente ben orchestrata − a forgiare il gusto del lettore medio attuale?
Alessandro Gazoia individua in Come finisce il libro (minimum fax) una criticità di tipo editoriale, “in un filtro che, facendo passare cento cloni e cento libri del cantante/giornalista, opera un abbassamento continuo della soglia del difficile e impoverisce così la nostra cultura”. Non solo: un processo di questo tipo porterebbe all’aumento di “romanzi giudicati troppo impegnativi per essere pubblicati o, (…) dopo l’ennesimo rifiuto, autori di valore smetteranno persino di scrivere opere ambiziose”.
Un’affermazione pessimista come quella di Gazoia pare partire da un’idea precisa, e cioè da un lettore quasi plagiato da un’editoria culturalmente poco attenta, che − mirando in primis alla monetizzazione dell’opera − va a definire un pubblico quantomeno poco esigente o propenso alla complessità. Senza negare la veridicità di quest’analisi, è possibile aggiungere alcune osservazioni, premettendo che, naturalmente, il consumo di letture semplici e prive di particolari costruzioni narrative non è di per sé indice di scarse capacità di lettura.
Quale e quanto peso ha, per esempio, una situazione sociale, politica ed economica come quella attuale? Per meglio dire: quando in libreria il giovanissimo sceglie un libro, quanto questa scelta è influenzata da un’educazione culturale debole? Ha lui, in effetti, gli strumenti adatti ad ampliare i propri gusti e trarre il giusto stimolo e insegnamento da una lettura, per esempio, storicamente o socialmente più valida della classica biografia del calciatore o cantante di turno? Ma non solo: una società composta da uomini e donne, potenziali lettori, delusi e continuamente afflitti, può − senza una guida capace − trovare in sé gli stimoli propositivi necessaria una lettura “impegnata”?
In ultimo, riprendendo Gazoia: se l’editore è un mediatore culturale, costretto però nelle scelte da esigenze prettamente economiche, è opportuno limitarsi a una critica del sistema o avrebbe più senso tentare la strada della rieducazione del lettore?