Corsi e ricorsi (dimenticati) della letteratura femminile: le poetesse “virili” dell’antichità

letteratura femminile

“Di scrittrici ce ne sono state molte, alcune ricordate altre dimenticate, ma è dalla seconda metà dell’Ottocento che la donna scrittrice mette da parte la vita, le relazioni, i sentimenti per dedicarsi al mondo.”

Così la collega Federica Colantoni introduce su www.Cultora.it un elogio della scrittura femminile, presentando l’ampliamento delle tematiche muliebri da un punto di vista ristretto, quello privato, a uno più ampio, che sfiora le questioni coeve, letterarie e socio-politiche.

Se c’è un caposaldo nel pregiudizio concernente la scrittura femminile è proprio quello che vuole vedere le autrici parlare di “cose da donna“. Per questo motivo molte di loro sono state spesso definite dalla critica “virili” o “mascoline”, quando il loro genio non faceva vibrare le corde del sentimentalismo.

Con tristezza affermo che quei corsi e ricorsi storici di cui parla Polibio, facilmente riscontrabili, ad esempio, nella letteratura latina che emula quella greca, e in quella italiana che le riprende entrambe, difficilmente risultano tangibili nella scarna tradizione letteraria femminile. Questo filone secolare è stato censurato dai canoni letterari imposti dalle politiche patriarcali, che hanno ammutolito a lungo i canti delle donne. Lo stesso Euripide fa affermare al coro di Medea, che solo un piccolo gruppo di donne non è stato estraneo alle Muse (vv. 1080 e ss.).

Arrivo dunque al punto. Il caso dell’Ottocento non è che il ricorso dell’antichità classica, dove possiamo ipotizzare proprio due filoni di ispirazione femminile: quello lanciato da Saffo di Lesbo, che predilige un io soggettivo e volutamente muliebre, ripreso dalla poetessa Erinna (IV sec.?) e dall’epigrammista ellenistica Nosside di Locri , le cui rispettive sensibilità poetiche si rivolgono alla vita in casa, ai templi, e alle cerchie femminili, e quello inaugurato da Telesilla di Argo, autrice classica di poemetti mitologici e inni, emulata con molta probabilità dalle poetesse vaganti di età ellenistica e dall’epigrammista Anite di Tegea.

Le prime, le “cantrici” di III secolo circa, dopo un’epoca di reclusione per le donne, godono appieno dello sgretolamento della rigida polis e iniziano a vagare per le sedi greche come performers, ottenendo privilegi pari a quelli dei colleghi uomini, tra cui compensi in denaro. Le loro composizioni “impegnate”, ricordate dalle epigrafi onorarie rinvenute nelle città che le ospitarono, concernevano la celebrazione storica e mitologica delle gesta dei rispettivi popoli. La più importante tra loro fu Aristodama di Smirne. Avete idea di cosa volle dire per le “donne dalle bianche braccia” poter girare il mondo in tournèe?

L’altra, Anite, vissuta in quell’Arcadia di cui celebra le bellezze bucoliche, per la sua ispirazione epica è stata persino denominata l’Omero femmina:

Il tuo valore Proarco ti uccise nella mischia e la tua fine
gettò in tetro lutto la casa del padre Fidia; ma sopra di te
la pietra canta questo messaggio bello: moristi combattendo
per l’amata patria.
(A.P. VII 724)

Per concludere, non è propriamente nell’Ottocento che la donna si appropria per la prima volta del mondo esterno: con sfumature diverse è già accaduto molti secoli prima, ma nessuno lo ricorda, sia per la frammentarietà delle opere di queste donne, sia per la difficoltà che la critica passata e odierna riscontra nel considerare queste figure, le cui scelte poetiche, spesso innovative, sono diventate famose col nome di qualcun altro, di sesso maschile.
Molto avrei ancora da dire su questi profili, ma il mio, come quello della Colantoni, è solo un pezzo da aggiungere al puzzle incompleto della letteratura femminile. A noi donne contemporanee non resta che unire le nostre voci per ricordare quelle antiche, inghiottite dalla storia e dal pregiudizio.

Fonte: La Chioma di Berenice

In copertina: Telesilla di Argo

Redazione

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