di Giovanni Segantini
Uno degli artisti della pittura italiana del XIX che da sempre mi affascinano è Giovanni Segantini. L’interesse per Segantini non è solo dovuto al fatto che fece opere caratterizzate da particolari e spesso sfuggenti tagli prospettici, dipinte con pennellate filamentose di una colorata limpida lucentezza. Del pittore divisionista mi ha sempre appassionato la sua capacità di dare e arricchire di valore e senso le sue opere. Tra i tanti dipinti da lui realizzati vi vorrei parlare dell’olio su tela L’angelo della vita o la Dea cristiana, realizzato attorno al 1894 e conservato dal 1918 nella Galleria Arte Moderna di Milano.
La tela, commissionata all’artista da Leopoldo Albini, un ricco banchiere che voleva il quadro per la propria casa, presenta un’immagine da subito riconoscibile: una figura femminile con bambino immersi in un paesaggio.
La donna è dipinta in un atteggiamento profondamente materno, con un volto dolce e protettivo verso il piccolo che tiene e stringe tra le braccia con dolcezza e amore. La figura è ammantata da un vesta candida che le avvolge con dolce morbidezza il corpo, dalla pelle di un colore così chiaro da ricordare l’avorio. In braccio tiene il figlio e lo abbraccia con delicatezza, dimostrando bene e protezione. La corrispondenza tra le due figure non è data solo dall’incarnato chiaro della pelle, ma anche dal colore dei capelli nei quali riverberano sfumature dorate. Inoltre, il panno leggero con il quale il piccolo è coperto è un prolungamento della veste della madre, un dettaglio che evidenzia il profondo legame tra i due.
Le due figure sono inserite in uno sfondo paesaggistico idealizzato, nel senso che non è riconducibile ad un luogo geografico preciso. Fatto sta che in primo piano si nota un albero dalla piegatura innaturale, ma necessaria, per trasformarlo nella base di appoggio e sostegno – una sorta di trono naturalistico– della maternità dipinta. I rami che si espandono ai lati sembrano delle braccia che, nonostante siano spogli di foglie, circondano e racchiudono le due figure umane e riecheggiano l’abbraccio tra mamma e figlio.L’albero ricorda un po’ quello contorto che Segantini dipinse per l’opera Le cattive madri (1894), ma in questa tela esso crea una sorta di cornice circolare che abbraccia le due figure, richiamando le stesso gesto protettivo, che esse stesse stanno compiendo.
Dietro un paesaggio lacustre spoglio, con colli e un lago in ombra e un prato illuminato nella parte, dove stanno i soggetti. Esso è definito attraverso piccoli filamenti di colore gli uni accostati agli altri. La luce è forte, intensa e si irradia da sinistra per dare luminosa vitalità alla scena della maternità.
Nel corso del tempo Segantini venne definito per certi suoi quadri molto naturalista e per altri simbolista (fase ultima della sua vita). Credo che questo L’angelo della vita o Dea Cristiana sia una composizione pittorica nella quale il naturalismo e il simbolismo si mescolano alla perfezione per la rappresentazione di un sentimento universale (il legame tra un madre e un figlio) che trova sviluppo concreto nella realtà esistenziale del quotidiano.
Dettaglio: Il quadro presenta firma e data in basso al centro (spostata verso destra): “G. Segantini 1894”.
Giovanni Segantini nacque ad Arco nel 1858, orfano, trascorse un’infanzia infelice in riformatorio (1870-73), fu allievo all’accademia di Brera di G. Carmignani. Sentì l’influenza dell’ambiente pittorico milanese e della tradizione romantica lombarda (F. Carcano, M. Bianchi, T. Cremona), facendo il suo esordio pittorico con nature morte, vedute e soggetti d’ispirazione letteraria. Nel 1879 presentò a Brera il Coro di S. Antonio (1878, Milano, oggi collezione privata) che ottenne un certo successo, anche se il linguaggio espressivo dell’artista non aveva ancora trovato la propria forma. Qui a Brera, S. incontrò V. Grubicy che, non solo diventerà il suo consigliere e materiale sostenitore, ma gli farà conoscere l’opera di J. F. Millet e le ricerche divisioniste francesi, indirizzando così S. verso un maggiore naturalismo. Nel 1880, S. si trasferì in Brianza dove, il contatto diretto con la natura gli permise di schiarire la tavolozza cromatica e di e approfondire le ricerche sulla luce in numerosi paesaggi e scene agresti. Le opere successive, eseguite durante il soggiorno a Savognino (1886-94), mostrano la raggiunta maturità stilistica. S. ottenne successi di critica e di pubblico e l’avere contatti con artisti come G. Klimt e la Secessione Viennese, lo avvicinarono alle tematiche simboliste. Dipinse le sue ultime opere, dense di riferimenti simbolici, nell’isolamento delle montagne dell’Engadina, dove si ritirò nel 1894 e dove morì nel 1899.