Quando cominciai a scrivere il diario – 01
Robert Stuart Moncliff. Così mi chiamo. È il 1881, ho compiuto 13 anni e niente nella mia vita vale la pena di essere raccontato. A parte che dovrei essere morto. So che queste parole verranno lette dalla signorina Alvena Griffiths, che ne sarà molto infastidita. La signorina Alvena Griffiths è la mia istitutrice, lei mi ha imposto di tenere un diario. L’ho sentita che ne parlava con mio padre. Lei e mio padre sono molto in confidenza. E la cosa non mi piace. Sono molte le cose che non mi piacciono. Forse perché dovrei essere morto. È successo quando avevo quattro anni. Mi sono ammalato e tutti i medici consultati dai miei genitori furono chiari: non c’era speranza. Mio padre se ne fece una ragione. Mia madre no. Mia madre si chiamava Rose. Era bellissima. La ricordo e tengo con me un suo ritratto, un dagherrotipo. Lei mi rimase accanto. Allontanò tutti, servitù e tata. Si prese cura di me. Mi fece guarire. E la malattia che avrebbe dovuto uccidermi la indebolì a tal punto che non superò l’inverno. Mio padre non me lo ha mai perdonato. Non importa che la signorina Alvena Griffiths legga, corregga e riferisca. Mio padre, Sir William Jefferson Moncliff, sa che lo penso, così come sa che non mi sbaglio. Avrebbe preferito perdere un figlio piuttosto che la donna che amava. Non posso fargliene una colpa, visti i risultati. Sono un mediocre. Non eccello in niente. Statura media, forza scarsa, risultati sportivi e scolastici appena sufficienti. Mi dicono che somiglio a mia madre, ma la mia faccia è solo una tavolozza dei suoi colori, alla rinfusa. I miei occhi hanno il colore dell’acqua in un catino di stagno. Ho capelli, ciglia, sopracciglia e peluria di un biondo imbelle che non ha il coraggio di trasformarsi in rosso. Ho la pelle deturpata di lentiggini che non bastano a nasconderne il pallore. Fossi brutto avrei la possibilità di distinguermi in qualcosa. Ma per essere brutto ci vuole carattere. Io non ho neanche quello. Quando mio padre ha deciso di trascinarmi in questa latrina di miasmi mortali e calore insopportabile, mi ha fornito un’alternativa: il collegio militare. Credo abbia sperato con tutto se stesso che scegliessi di restare in Inghilterra, di indossare una divisa, di intraprendere una strada che mi allontanasse da lui. Ho avuto paura. Non amo le armi, non amo lo scontro. Odio le divise. E l’ho seguito in India. Non potevo immaginare cosa avrei trovato. Questo mondo puzza. Questo mondo è sporco, caldo, appiccicoso. Nitido. La luce rivela ogni particolare e ogni particolare non fa che accrescere l’orrore. Animali randagi, escrementi, gore di liquami a cielo aperto, piante mostruose e ancor più mostruosi esseri che di umano hanno poco. Piaghe, barbe incolte, sozzura. Corpi macilenti e devastati da malattie innominabili. Mani adunche che si protendono a pretendere un obolo. E poi fiumi. Enormi, gonfi di acque putride e di resti umani. Minacciosi di rettili squamosi e terribili. Nessuna speranza di refrigerio. E, comunque, non so nuotare…
Robert mise un segnalibro di pergamena tra le fragili pagine vergate a mano e alzò gli occhi chiarissimi alla finestra. Oltre i vetri del bovindo c’era l’odore forte della pioggia sulla brughiera, c’era un autunno di brume già pronte a trasformarsi in brina. Eppure non aveva alcuna difficoltà a ritrovare odori e suggestioni di quell’India lontana nel tempo e nello spazio. Un lieve sorriso sulle labbra al pensiero di quanto odio e quanto dolore quel tredicenne confuso, spaurito e solo aveva saputo infondere nelle pagine, vent’anni prima. Alvena Griffiths aveva avuto ragione. Quelle sensazioni, quelle parole dovevano trovare uno sfogo, una via d’uscita, oppure gli sarebbero suppurate dentro. Protese l’attizzatoio tra i ceppi per ravvivare il fuoco. Sorseggiò il tè dal forte aroma di gelsomino, carezzò con gli occhi il dagherrotipo col volto di Rose, sua madre. Poi riprese a leggere.
Uscire senza la scorta della mia istitutrice e del valletto indiano non mi è permesso. Non che io lo voglia. Non ho alcun desiderio di lasciare il rifugio che questa casa mi offre. Non c’è niente lì fuori per me. Forse non c’è niente in nessun luogo del vasto mondo. Mio padre non ha neanche provato a iscrivermi alla scuola frequentata dai figli dei nostri connazionali. La signorina Griffiths basta e avanza per quel che ho voglia di imparare. Mio padre mi guarda e vede il suo fallimento. Non ho talenti. Di sicuro non aspiro a seguire le sue orme nella carriera forense. So che si chiede quale futuro possa mai avere. Non so fare niente. A parte disegnare. Alle volte mi metto alla finestra della mia stanza, al primo piano di questa casa, e osservo. Lo sguardo spazia oltre il muro di cinta e le fronde del giardino, che ogni giorno lotta per ritornare giungla, aprono spiragli. La villa sorge a pochi passi dall’argine di quell’immensa gora che chiamano fiume. Il Tamigi è un rigagnolo al confronto. La sponda opposta, che pure è parte di questa stessa città, si perde nel baluginare madido di calore dell’orizzonte. La corrente che si finge placida adagiandosi in quello spazio smisurato trascina tronchi, corpi di animali rigonfi di putredine, barche dalle vele triangolari. Ma quando il sole spietato, che stento a credere sia lo stesso del mio paese, si dispone al tramonto, l’argine pullulante di vita, il fiume, le vele vivono un momento di grazia. È allora che mi piace ritrarli. La sanguigna rende bene la violenza dell’immagine, ma la depura della realtà. Niente afrori, niente calura, niente insetti che pungono famelici. Solo la bellezza che passa per gli occhi. La bellezza che riesco a catturare. Un talento inutile quanto pochi altri. Questo pensa mio padre.
Frasi spezzate, monche. Concetti bloccati, come singhiozzi. Quel diario era un concentrato di dolore. Robert accese una sigaretta chiedendosi se la tortura di ripercorrere quei ricordi non fosse il tentativo di offrire un sacrificio, un’espiazione per poi piatire. Eppure mai era stato più lucido di adesso nella consapevolezza del tempo scaduto. Si alzò dalla poltrona, percorse la stanza, aprì uno spiraglio al freddo esterno. La luce del breve pomeriggio autunnale già morente. Le voltò le ampie spalle per abbracciare con gli occhi la stanza che più di ogni altra sentiva sua. Scaffali carichi di libri, i suoi libri, intervallati da quadri, i suoi quadri. Robert Stuart Moncliff sulle coste dei volumi e a margine delle tele. Scrittore affermato, pittore apprezzato. Penne e pennelli e uno stile unico per farsi strada nella vita, a dispetto della convinzione di non averne la forza e le doti. Ma nulla di tutto questo sarebbe accaduto senza quei mesi trascorsi in India.