Maria Antonietta Macciocchi, la “comunista eretica” dimenticata dalla Storia
Il 15 aprile di 8 anni fa si spegneva una giornalista, politica e intellettuale di sinistra che curiosamente la cultura italiana (e la stessa sinistra in primis) sembra aver voluto relegare nel dimenticatoio: parliamo di Maria Antonietta Macciocchi (1922-2007).
Nata a Isola del Liri in quel di Frosinone circa un anno e mezzo dopo che si era formato il primo nucleo del Pci, partito al quale avrebbe sacrificato buona parte della propria esistenza, Macciocchi era figlia di una “ricca e fitzgeraldiana famiglia romana” (così scrive in quella che è forse la sua opera più nota, il testo autobiografico intitolato Duemila anni di felicità. Diario di un’eretica). Dopo il secondo conflitto mondiale frequenterà l’università a Roma, laureandosi con Natalino Sapegno presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. Ben presto intraprenderà, parallelamente alla carriera politica, quella di giornalista e di docente universitaria, ricevendo incarichi di rilievo, per poi infine essere espulsa da entrambe le istituzioni per le quali si era forse più spesa: l’università e il Partito comunista italiano.
Nel corso della sua vita Macciocchi coltivò amicizie importanti: con Pasolini, Malaparte, Moravia, Luchino Visconti, Sciascia, Sartre, Simone de Beauvoir, Althussier e tanti altri. Ma le inimicizie non le mancarono, condite pure da qualche episodio sgradevole: una volta, durante una riunione di partito, volle denunciare l’imperante maschilismo che attribuiva agli inquilini delle Botteghe Oscure. All’epoca, Macciocchi stava conducendo una serrata battaglia femminista su Noi donne, il settimanale romano di cui era stata da poco nominata direttrice. Checché ne sbandierasse, il comitato centrale del Pci non sembrava mostrare particolare interesse rispetto a queste tematiche: durante il breve comizio che tenne al cospetto dei vertici del Pci, Togliatti (stando a quanto scrive Macciocchi) non la degnò d’uno sguardo e seguitò a leggere il giornale che teneva tra le mani, mostrandole sdegnosamente le spalle. Giorgio Amendola, cognato della donna, cominciò a sghignazzare. La sua risata contagiò il vicino Pajetta e persino l’incorruttibile Ingrao (lo stesso Ingrao che di recente ha festeggiato i cent’anni). Solo Alicata accennò un sorriso amaro. La compagna Maria Antonietta riuscì a stento a trattenere le lacrime, tentando di dissimulare la sua fierissima rabbia strabordante d’orgoglio (orgoglio, termine che non di rado ritorna nei suoi scritti – noi la Macciocchi, seppur con qualche forzatura, ce la figuriamo come una specie di Fallaci di sinsitra: grintosa, non bellissima ma munita di un certo fascino, istruita, la penna graffiante ma raffinata, gli inconfessabili tormenti interiori, i complicati rapporti sentimentali e l’insofferenza verso l’insopportabile società maschilista del suo tempo).
Dopo aver pronunciato quel discorso, il cognato Amendola le si avvicinò e le disse: “senti Maria Antonietta, tu sei un’ottima giornalista, anzi sei una bravissima scrittrice! Ma perché non scrivi romanzi come Moravia invece di intestardirti nel lavoro di Partito?”.
Che nel Pci regnasse il maschilismo più retrogrado, Macciocchi sembrava esserne del tutto convinta:
“Mi abituai ad ignorare, a negare l’esistenza del mio corpo. Nella Chiesa del partito, io accettavo il ruolo della suora. Magari della Madre Superiora. Noi, le donne comuniste, altro non eravamo che le caste spose di Marx o di Togliatti. Le più vecchie, quelle del Comintern, erano le spose di Stalin […]. Togliatti ci sussurrava di fare i santini coi volti delle martiri partigiane, di metterli a fianco di Santa Rita e di Santa Caterina da Siena […]. Il leader comunista, come qualsiasi uomo, predicava la castità e la purezza sessuale leninista alle adepte”
Non furono però questi i contrasti che provocarono la sua espulsione dal Partito, quanto piuttosto la vicinanza con la Cina maoista (nei confronti della quale prese un vero e proprio abbaglio): nella lunga diatriba tra Mosca e Pechino, agli occhi del Pci i revisionisti erano i cinesi, non certo i sovietici. Macciocchi non era dello stesso avviso. Pazienza, pensò il Comitato Centrale, che nel 1977 ritenne di non doverle rinnovare più la tessera. Fu costretta a lasciare il Partito in una sorta di processo al quale presenziarono, tra gli altri, suo cognato Giorgio Amendola ed Enrico Berlinguer. Di quell’evento la diretta interessata ci ha lasciato un resoconto in un testo introdotto da Leonardo Sciascia, Dopo Marx. Aprile (ed. Espresso, 1978). Dell’esperienza comunista dirà così, diversi anni dopo:
“Uscii dalla chiesa, voltando le spalle al Dio dei cattolici, per abbandonare la Chiesa di Dio. Ma, subito dopo, imboccai, senza saperlo, la strada di un’altra Chiesa, quella comunista. Non sapevo affatto che l’ateismo dei comunisti, che allora mi si confaceva, fosse la copertura di nuove bigotterie, di nuove fedi assolute, di nuove religioni, di nuovi morti”.
Ristabilitasi da quello smacco, Macciocchi andò a consolarsi con un altro partito, quello radicale: il suo fascino di guerriera aveva sedotto Marco Pannella, il quale le propose di candidarsi al Parlamento europeo. Giunse così a Strasburgo, dove condusse una serrata battaglia a favore dell’abolizione della pena di morte. Sarà Emma Bonino a portare vittoriosamente a termine quella battaglia. Ma ciò avverrà solamente alcuni decenni più tardi.
Marco Testa
Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino, docente presso l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli, lavora presso l’Archivio di Stato di Torino ed è critico musicale di “Musica” e de “Il Corriere Musicale”.