Intervista a Lazzaro Mainardi
Lazzaro Mainardi è il protagonista del romanzo di Alessandro Bastasi “La scelta di Lazzaro” (Meme Publisher).
Lazzaro Mainardi è un ex brigatista. Ha creduto. Ha impugnato le armi. Ha ucciso. Per un’ideologia. Ho avuto voglia, dopo aver letto il libro (che vi consiglio con inistenza), di conoscerlo meglio. Eccolo.
Signor Mainardi, lei ha visto crollare le ideologie. Ne sente la mancanza?
Crollate le ideologie? Dice? A me sembra che si sia sostituita un’ideologia con un’altra: quella che annulla i conflitti sociali e pone l’individuo al centro, con tutto il suo bagaglio di cinismo e di individualismo; quella che considera la competitività e il successo economico personale quali motori naturali e senza alternative della vita. Il neoliberismo che innalza il mercato a paradigma indiscutibile della realtà umana non è forse un’ideologia?
Ha visto il sogno di un mondo diverso, migliore, trasformarsi in incubo. Ne sente la colpa?
Il termine “colpa” non mi sembra il più corretto. E’ un concetto etico, non politico. Quello che è avvenuto negli anni ’70 è stato un vero e proprio conflitto sociale, una vera e propria lotta di classe. E noi, assieme a quella che allora era la classe operaia, l’abbiamo persa. Siamo stati sconfitti politicamente e militarmente. Punto. Dice Warren Buffett, il terzo uomo più ricco al mondo: “La lotta di classe esiste da vent’anni e l’abbiamo vinta noi”
Si ha l’impressione, leggendo racconti di persone con un passato analogo al suo, che la scelta della lotta armata sia stata fatta senza la necessaria consapevolezza.
In questo c’è una dose di verità. Dentro di noi bruciava il fuoco della rivoluzione. Non eravamo dei “ribelli”, avevamo una strategia politica rivoluzionaria tutta tesa allo scopo di ottenere la giustizia sociale, di “liberare Euridice”, come scrive Erri De Luca. L’errore strategico è stato di non tenere conto fino in fondo delle condizioni strutturali in essere e di quelle che stavano maturando già in quegli anni: da un lato l’affermarsi delle nuove tecnologie che in poco tempo avrebbero scardinato i rapporti di produzione così come li avevamo conosciuti fino ad allora; dall’altro lato l’errata convinzione che le condizioni rivoluzionarie si sarebbero verificate radicalizzando fino alle estreme conseguenze lo scontro. Non comprendendo invece che il terreno del conflitto diventa fertile solo se sono le moltitudini, e non un’élite, a prendere coscienza della natura classista della società. Quando l’illusione della famiglia del Mulino Bianco viene spazzata via dalla realtà delle cose. Quando la gente non beve più l’imbroglio che la televisione le propina come modello naturale e senza alternative dell’esistenza. Aggiunga a questo il velleitarismo contro un antagonista di classe potente e ramificato, grazie anche all’alleanza con apparati dello Stato e alle pressioni di paesi stranieri quali gli USA. Un antagonista che non ha esitato a mettere in atto una strategia stragista (questa sì di stampo “terrorista”) per combattere sul nascere i prodromi di una riscossa sociale iniziata con l’autunno caldo del ’69.
Alessandro Bastasi, La scelta di lazzaro
Ci ritenevamo i demiurghi della storia, e abbiamo sbagliato sia i metodi che gli obiettivi.
Che si prova a premere il grilletto?
Una sensazione duplice: da un lato la fredda consapevolezza che si sta compiendo un’operazione strategicamente necessaria congiuntamente allo sforzo di pensare all’obiettivo non come a una persona ma come a un bersaglio meramente militare; dall’altro l’eccitazione per l’azione che si sta per compiere, l’adrenalina alle stelle, il respiro che ti si ferma in gola. Perché, nonostante tutto, dentro di te lo sai che quello è un uomo.
Che si prova a veder morire dei compagni?
Quello che si prova quando in guerra si vedono i compagni cadere sotto i colpi del nemico. Eroi morti per una causa per la quale valeva la pena di morire. La cocciuta convinzione che quelle morti comunque non saranno vane. Il desiderio di vendetta che si aggiunge alle elaborazioni politico-militari. L’esigenza di proseguire la lotta anche in loro nome. Soprattutto se c’era un forte legame affettivo. Penso a Franca, la mia compagna di allora, spazzata via in un secondo dalle raffiche dei carabinieri.
Questo provi in quei momenti.
Poi, successivamente, il tempo ti porta a riflessioni e sentimenti più ragionati, più reali. E inevitabilmente meno eroici e più umani.
Che si prova a realizzare che i “nemici” uccisi avevano una vita, degli affetti, una storia?
Anche questo è un sentimento che non realizzi subito. Penetra e si fa strada dentro di te successivamente, quando rielabori con obiettività le tue azioni, magari all’interno di una cella. Ma anche dopo. E’ qualcosa che poi non ti abbandona più. Soprattutto se hai modo di incontrare e di conoscere anche solo una persona per la quale quel “nemico” costituiva l’intero mondo affettivo, penso a una moglie, a un figlio… A una figlia… E’ un’esperienza devastante, che ti conduce a rivedere criticamente e senza indulgenza tutta la tua vita. Come sa, io ho vissuto un’esperienza simile, e lei conosce qual è stata la mia reazione, la scelta che ho fatto nei confronti di quella ragazza in un momento di grave pericolo, per me ma soprattutto per lei.
Si sopravvive al senso di colpa?
Continuo a non ritenere corretto questo termine. Mi rendo conto che è difficile capire che cosa avesse significato per noi lo spartiacque della strage di piazza Fontana come origine delle nostre scelte. E come possa essere difficile, per chi non ha vissuto quel periodo, comprendere l’atmosfera che si respirava allora, il clima di violenza, da una parte e dall’altra, che ci avvolgeva tutti come un sudario. Come ho cercato di dire sopra, noi ci ponevamo al di là del bene e del male, oltre ogni senso comune.
Eravamo i leoni, gli artefici della potenza della Storia. La Storia ci avrebbe giudicato, non la Morale. Eravamo gli angeli che strappano i sigilli del Libro e scatenano l’apocalisse.
Detto questo, sì, si sopravvive al “senso di colpa”. Però devi fare i conti fino in fondo con il tuo vissuto. Cosa che, dentro di me, anche con l’aiuto silenzioso ma attento di mia moglie Samar, sono riuscito a fare.
Crede che la sua storia interessi ancora la gente?
E’ passato così tanto tempo, che temo non interessi più se non chi, per curiosità personale o per motivi di studio, senta il bisogno di comprendere i segni di un’epoca al di là delle distorsioni che i media, vuoi per opportunismo o per ignoranza, propinano a una generazione che vede le vicende di allora da lontano, come fatti storici che non hanno più a che fare con la sua vita. Se si pensa che molti giovani alla domanda “chi sono stati responsabili della strage di piazza Fontana?” rispondono “le Brigate Rosse”, si comprende l’abisso che c’è tra noi e loro. E’ mia convinzione, peraltro, che questa sia una rimozione voluta dalla politica, a destra ma soprattutto a sinistra, finalizzata a derubricare a mero fenomeno criminale le vicende di quel periodo, come se fossero state un bubbone malato su un corpo sano. Non si è mai voluto, per scelta, addentrarsi in un’analisi puntuale e senza pregiudizi sul contesto e sulle ragioni politiche che hanno determinato la nascita dei movimenti armati.
La memoria storica ha un valore o deve morire insieme ai protagonisti?
La memoria storica ha sempre un valore. Anche se oggi si tende a vivere un presente senza passato né futuro, a non dare alcun peso alle esperienze personali di coloro che hanno vissuto delle esperienze, comunque le si giudichi, eccezionali. Come se si fosse nati ora e non si fosse figli della storia. I “giovani” contrapposti ai “vecchi”: ormai è diventato patrimonio comune, giusto? Rottamare, partire da zero. A quando il revival di “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”? Ma mi rendo conto che sto divagando, perciò mi taccio.
Se potesse intervenire nella vita politica e sociale di questo paese, oggi, lo farebbe ancora una volta con la pistola in pugno?
Oggi la crisi sta generando una ribellione sociale sorda e diffusa che accomuna i precari, i disoccupati, i pensionati da 500 euro al mese, le piccole partite IVA, i commercianti, i piccoli imprenditori. Al di là del fatto che parecchi di questi soggetti fino a ieri hanno vissuto preoccupandosi soltanto dei propri interessi particolari, infischiandosene del bene comune, senza alcun senso dello Stato, ben inseriti nel paradigma berlusconiano, al di là di questo, dicevo, si tratta comunque di un ribellismo fine a se stesso, senza alcuna analisi seria e approfondita delle vere forze in campo (una volta si sarebbe detto “della natura di classe” della crisi), quindi senza alcuno sbocco politico degno di questo nome. Un simile fronte non mi avrebbe certo tra le sue fila.
In una situazione diversa, con una “generazione nuova che si innamora di Euridice e la va a cercare anche all’inferno” la tentazione sarebbe forte. Ma siamo nel campo delle ipotetiche di terzo grado, quindi, al momento, ai confini della realtà.
Signor Mainardi, ne valeva la pena?
Rispondo prendendo ancora a prestito la prosa poetica di Erri De Luca: “Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana.”