«Herbie Hancock mi ha indicato la strada». Luca Francesconi si racconta
«Quand’ero giovane amavo suonare il jazz, lo facevo anche per guadagnarmi da vivere… ma durante un concerto del grande Herbie Hancock mi si accese la fatidica lampadina: mi resi conto che lui, suonando, scavava in un qualcosa che si riallacciava a una tradizione che gli apparteneva appieno; io, mi ripetevo, potrò forse diventare un buon jazzista, ma il jazz non rappresenta la mia identità». Così Luca Francesconi ieri pomeriggio a Torino, nella sede del prestigioso Circolo dei Lettori di via Bogino, in occasione di un incontro moderato dal professor Enzo Restagno, direttore artistico e anima del Festival MITO Settembre Musica. All’incontro avrebbe dovuto partecipare anche Thomas Adès, accostato a Francesconi non foss’altro per poterne meglio sottolineare i contrasti (così Enzo Restagno); sfortunatamente però il compositore britannico si trovava ancora negli Stati Uniti, preso da altri impegni.
Durante quel concerto di Hancock, Francesconi, compositore milanese oggi celebre in tutto il mondo, credette quindi di avere individuato una volta per tutte la strada da percorrere: non dunque la tradizione afroamericana, alla quale pure deve molto, ma quell’immenso «fiume sotterraneo» che vivifica il lungo e glorioso percorso della musica occidentale e alla quale, questo è ciò che più contava, egli si sentiva di appartenere. Di qui la decisione di riprendere gli studi in conservatorio che aveva messo da parte durante gli anni delle scuole medie, questa volta però per passare dai tasti del pianoforte alla matita del compositore; sarà allievo dapprima di Azio Corghi e, in seguito, di Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio, al quale per un periodo farà pure da assistente.
L’incontro di Palazzo Graneri della Roccia, sede del Circolo dei Lettori, è stato breve ma piacevolissimo. Francesconi ha voluto raccontarsi e raccontare la propria visione della musica, il percorso che ha affrontato, il rapporto con la propria identità di musicista occidentale. La prospettiva identitaria sembra quindi assolutamente centrale tanto nella sua produzione di compositore quanto nel suo approccio di studioso: in questo gli fu fondamentale l’incontro con Berio, che gli fece comprendere quanto fosse importante saper gestire il potere evocativo della storia e l’enorme patrimonio che essa veicola. Una mentalità, quella europea, che si distingue per la vocazione analitica, per la ferrea volontà descrittiva, in tutti i campi del sapere come nella musica; e il contrappunto, di cui Francesconi ha tessuto ieri entusiastici elogi, non è che uno specchio di questo modo di approcciarsi alla conoscenza, all’arte e a ben vedere a una certa molteplicità di esperienze umane.
Fare i conti con questa tradizione, quindi con questa nostra memoria, non è cosa tra le più semplici: e se per acquisirne la grammatica e il linguaggio è ovviamente necessario affrontarla con mezzi consoni, è però anche «crudele», afferma il compositore, «pensare che un giovane non possa scrivere nulla prima di essersi fatto un’idea completa della storia della musica occidentale». Francesconi ritiene ciò «paralizzante» e ammette di essersi scontrato egli stesso, a suo tempo, con tale problema.
Poche parole sono state spese sui suoi lavori, peraltro alcuni dei quali preliminarmente affrescati, con la consueta autorevolezza, dal professor Restagno. Per cui quest’ultimo non può esimersi da chiedergli lumi sui progetti futuri, essendo ben a conoscenza del fatto che il Covent Garden di Londra gli ha commissionato un’opera, genere al quale Francesconi sembra essersi votato: «si tratta di un opera su libretto di Shakespeare. Proprio così, per la commissione ricevuta dal prestigioso teatro londinese ho scelto proprio un libretto in lingua inglese, giusto per cacciarmi ne guai [ride, ndr]», senza contare altre commissioni di simile natura, piombategli ora da Parigi, ora da Zurigo. «In realtà non avrei voluto occuparmi di tutte queste opere, ma le commissioni di questo tipo sono letteralmente fioccate». Senz’altro avrà un bel daffare.
Marco Testa
Cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, vive e lavora a Torino. Archivista-storico e musicologo, lavora principalmente per l’Archivio di Stato del capoluogo piemontese. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio “G. Verdi” di Torino, è docente dell’Accademia Stefano Tempia (storia della musica/guida all’ascolto) e collabora con festival e istituti di ricerca. È autore di pubblicazioni d’interesse storico e musicologico.