Chi riesce a parlare di gioia?

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Intendiamoci: i post non devono sempre riguardare il dolore. Ma esiste, nel dolore, quella parte indicibile che diventa – alla fine – il migliore mezzo espressivo per l’artista. E anche qui, attenzione, non sto definendo artista qualcuno che appartiene a una cerchia ristretta impossibile da individuare (avete notato che gli artisti si definiscono tra loro? Sono come alcuni scrittori che si recensiscono e segnalano a vicenda, come se il mondo si limitasse al loro gruppo ristretto: la paura di trovare qualcuno più bravo al di fuori della cerchia nota è l’insicurezza che li minaccia) ma ognuno di noi nell’atto creativo. Artista è chi crea, chiunque abbia la potenzialità per creare.

Errore è dare di sé una definizione univoca: ci si ingabbia in quella definizione, si diventa esattamente ciò che le parole dicono e si lascia indietro un grumo infinito di altri talenti nella forma di potenzialità. Siamo nati eclettici, tutti, il cervello potrebbe raggiungere confini ora inimmaginabili se solo smettessimo di insegnare a noi stessi – con lo strumento parziale della razionalità – chi e cosa siamo. Fluidi e creativi, siamo stati generati artisti e possiamo diventarlo anche quando i primi anni o decenni della vita ci hanno fatto pensare che il DNA individuale sia orientato verso il minimo della creatività.

Da qualche parte nella produzione di Christine Angot si trovano riferimenti precisi al suo tormento – così spesso sbandierato nei libri, anzi usato come vera e propria leva per la scrittura – e un discorso fulmineo e perfetto di un personaggio che ribadisce a Christine che quel tormento sia necessario per scrivere. Se non soffrisse così, se non avesse l’anima spaccata anche quando non dovrebbe esserlo non sarebbe in grado di scrivere i suoi libri. Si scrive, si crea perché tormentati. Diverso sarebbe creare privi del fuoco che lambisce il cuore, impossibile forse immaginare una creazione che nasca senza un po’ di dolore, un po’ di paura della morte, un po’ di strazio celati male da una psiche che vorrebbe rimuovere. “L’inconscio non perdona”, pensiero tipico dei criminologi: possiamo provare a nascondere sotto il tappeto della psiche ciò che ci dilania, ma quella polvere riuscirà sempre a sgusciare fuori e gridare. E la verità scientifica degli artisti così spesso affetti da disturbo bipolare sembra seguire il medesimo filone: la creazione si accende, divampa quando non riusciamo a contenere scissione e tormento, disperazione e dolore inspiegabile. Quel dolore inspiegabile che può avere una, dieci, mille origini oggettive ma va oltre e si gonfia, infila duecento canali collaterali, si nutre della natura stessa dell’anima. La natura di ombra e luce, la natura del contrasto perfetto tra estremi che convivono.

Lo scrittore crea perché ha il tormento, forse crea meglio quando il tormento è chiaro, implacabile, si può toccare. Crea meglio quando ha la sensazione di essere incapace di dire il proprio dolore. Oppure no, non è questa forse l’ennesima semplificazione, la voglia – ancora – di definire qualcuno impedendo la fluidità e l’espressione di ogni potenzialità?

Un dolore può iniziare da un trauma ma nei giorni, nelle ore non resta uguale a se stesso. Un dolore può scatenare l’indicibile, la sensazione che sia impossibile da raccontare. Da qui, è certo, nasce la creazione. Si apre la valvola di sicurezza, si urla in una lingua tutta personale e si trasfigurano gli eventi e le persone, si arriva ad altro per liberarsi di una parte del peso del tormento. Tormento, tormento, tormento: quante volte ho ripetuto questa parola in un solo, breve post? Eppure il segreto sta lì. Ecco perché tante persone che hanno avuto un tumore ri-scoprono in sé la voglia di creare. Il problema casomai diventa l’ansia di essere riconosciuti dal pubblico: gli scrittori vogliono sempre pubblicare eppure esistono opere che dovrebbero restare fini a se stesse. Concordo con Andrea Vitali: chi scrive vuole essere letto, visto, riconosciuto, ma oggettivamente non sempre la sua scrittura merita una pubblicazione.

E la felicità? Si può creare avendo solo la felicità nel cuore? Si può donare a se stessi o al mondo un’opera che nasce dalla gioia e solo da quella?

E’ la felicità il combustibile che permette alla fiamma creativa di divampare libera, piena, ricca?

Termino il post con queste domande, e se a qualcuno arriva la voglia di rispondere mi renderà felice (e saprò creare lo stesso, credo, o forse no).