Suburra, il film in cui un ex capo ultrà fa ombra a un impresentabile Amendola
Quando da piccolo giocavo agli indiani per qualche motivo mi piaceva fare la parte del colonialista che sparava ai Sioux. Deprecabile, lo ammetto, ma il piccolo schermo di stampo yankee manipolava già allora anche il modo in cui i bambini nati alla fine degli anni ’80 avrebbero dovuto intendere il concetto di “buoni” e “cattivi” con i pupazzetti di plastica (vallo a sapere che un quarto di secolo dopo si sarebbe discusso della possibilità di introdurre i giochini unisex). Comunque, quando simulavo un colpo esploso dalla mia pistola, con tanto di suono onomatopeico d’accompagno, facevo con la mano il classico gesto del “rinculo”, quello che consiste nel portare verso l’alto con un movimento deciso la canna dell’arma, unico modo per dare l’idea dell’azione appena compiuta, visto che, ringraziando Dio, la pallottola dentro non c’era. Ecco, potremmo discutere all’infinito sul valore educativo di quel tipo di giochi in tenera età, ma sarebbero discorsi di terziaria importanza se si considera che quello stesso gesto, il “rinculo”, Claudio Amendola è riuscito a ripeterlo al momento della scena clou di Suburra, l’ultima fatica cinematografica del regista dei boss, Stefano Sollima. Imbarazzante.
Se, dopo ACAB, la seconda pellicola dell’artista romano resta un ritratto della criminalità capitolina sviluppato in una qualità anni luce migliore di chiunque altro (fotografia e colonna sonora sono inarrivabili, così come nelle due serie Romanzo criminale e Gomorra), l’interpretazione di Amendola è davvero ai limiti del dilettantesco. Designato per ricoprire il ruolo forse più delicato, quello del Re di Roma, incute meno timore nei panni del boss della nonnina di Cappuccetto Rosso se si travestisse da lupo. Samurai, liberamente ispirato a Massimo Carminati, è inespressivo, poco più di un’ombra nell’equilibrio della sceneggiatura. Si vede in molteplici situazioni interloquire con tutti, ma con la stessa enfasi (cioè nulla) di chi fa chiacchiere da bar tanto con un membro dello Ior quanto con un boss potente almeno quanto lui. Sembra debole, anacronistico, tutto il contrario del vero Guercio, quello che da ex-Nar è riuscito a comandare Roma mettendo in riga mafie e teste calde, senza esplodere un colpo di pistola dagli anni ’70.
L’opposto di Adamo Dionisi, alias Manfredi Anacleti, il Casamonica della pellicola. Per chi non conoscesse l’ambiente del tifo organizzato romano, Dionisi è un ex capo ultrà della Lazio, membro fino agli anni a cavallo del millennio del direttivo degli Irriducibili, il gruppo che dall’87 ha regnato nella Curva Nord biancoceleste. Un bel tipetto, con precedenti penali per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti etc etc. Un mezzo sconosciuto (a parte qualche ruolo in Scialla e ne I Nostri ragazzi), come piace scegliere a Sollima, che monopolizza però la proiezione. Sarà la vicinanza con i fatti di cronaca a seguito del funerale del boss del clan di etnia sinti che spadroneggia nella periferia sud di Roma, ma tra ville kitsch, vizi inspiegabili (il pitbull da combattimento) e l’abbigliamento “appariscente”, Dionisi è l’interprete perfetto per un ruolo tutt’altro che facile da comprendere.
Tornando al copione di Suburra, se l’azione è da blockbuster americano, la sceneggiatura è talmente dettagliata da riportare fedelmente almeno 3 dei 4 grandi capi di Roma: detto di Carminati e Casamonica, il pesonaggio del Numero 8 non è riferito a un personaggio in particolare, ma seppur costruito racconta di un’influenza, quella su Ostia, nelle mani dei fratelli Fasciani, figliocci dell’altro ex Magliana Enrico Nicoletti (il quarto boss, Michele Senese, il “reggente” dei quartieri orientali, è l’unico “assente”). Una scelta comunque azzeccata, visto che Alessandro Borghi, viscerale e brutale, dallo sguardo spiritato da giovane perduto, recentemente protagonista anche di Non essere cattivo, alfiere dell’Italia per gli Oscar 2016, è davvero in stato di grazia. Detto di Amendola, l’altro personaggio “debole” sembra essere proprio Favino, nei panni di un ex missino in quota Pdl alla Camera, diciamo un Alemanno sui banchi di Montecitorio. Debole con i forti e forte con i deboli è troppo poco politico e troppo marionetta. Si potrebbe obiettare che i politici di oggi sono effettivamente tali, ma quella certa risolutezza retorica e d’immagine data dall’incarico che ricoprono in tal caso è inesistente. Non pervenuto Elio Germano.
Arrivando al messaggio della pellicola, quello, non ci nascondiamo, molto politico, è piuttosto semplice: a Roma non esiste criminalità organizzata, esistono intrighi che arrivano fino ai gangli dello Stato, e coinvolgono dai cani sciolti fino al Vaticano. In questo disegno parastatale, non esiste salvezza. Il significato metaforico del far cascare il giorno dell’Apocalisse con il 12 novembre 2011, giorno delle dimissioni dell’ultimo governo Berlusconi, e che ha segnato anche la fine politica del Cav, è proprio la sintesi di questo manifesto contro l’onnipotenza. Nel giorno in cui cadono gli dèi, dal Papa dimissionario al Premier che ha segnato la sua epoca, anche i vari boss subiscono un contrappasso che li mette al tappeto in un susseguirsi di epiloghi che ricorda la strage compiuta da Michael Corleone nel Padrino, il tutto con la pioggia, il nemico numero uno della Capitale, quello che la allaga in modo torrenziale ogni santa volta che cade, a far da contorno.
La scelta del titolo in questo senso è duplice (da ricordare comunque che si tratta di una trasposizione del romanzo di De Cataldo, lo stesso di Romanzo Criminale, scritto con Carlo Bonini): se nell’antichità la Suburra era un quartiere ai piedi del Palatino, un ghetto dove c’erano bordelli e taverne, un punto di incontro tra nobili senatori e gente di malaffare, dove mondi distanti e apparentemente inconciliabili tra loro entravano in stretto contatto, allo stesso tempo è anche geograficamente in corrispondenza del Rione numero 1 di Roma: Monti. Scegliere lo stesso nome del quartiere più antico della Capitale è il chiaro segno di una natura congenita, quella del malaffare, inestricabile dai marmi romani, dove, Banda della Magliana a parte, non è mai esistita un’organizzazione unica, bensì una divisione territoriale affidata a dei controllori, dai quali chiunque, sia essa la Mafia, la Camorra o il grande costruttore, deve passare. Così come i Sette Re di Roma, chiunque provi ad accentrare troppo potere nelle stesse mani finisce male. Il ritratto di un’Urbe maledetta, inafferrabile.
Visto il successo di Sollima nell’elaborare pellicole per il piccolo schermo, anche Suburra diventerà una serie tv, la prima originale Netflix italiana, realizzata dai creatori di Gomorra in collaborazione con la Rai. Sarà costituita da 10 episodi ed esordirà in tutto il mondo nel 2017 su Netflix, rete di Internet Tv con oltre 65 milioni di abbonati.
Daniele Dell’Orco
Daniele Dell’Orco è nato nel 1989. Laureato in di Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria nel medesimo ateneo. Caporedattore del sito Ciaocinema.it dal 2011 al 2013 e direttore editoriale del sito letterario Scrivendovolo.com, da febbraio 2015 è collaboratore del quotidiano Libero, oltre a scrivere per diversi giornali e siti internet come La Voce di Romagna e Sporteconomy.it. Ha scritto “Tra Lenin e Mussolini: la storia di Nicola Bombacci” (Historica edizioni) e, sempre per Historica, l’ebook “Rita Levi Montalcini – La vita e le scoperte della più grande scienziata italiana”, scritto in collaborazione con MariaGiovanna Luini e Francesco Giubilei. Assieme a Francesco Giubilei, per Giubilei Regnani Editore, ha scritto il pamphlet “La rinascita della cultura”. Dal 2015 è co-fondatore e responsabile dell’attività editoriale di Idrovolante Edizioni.