Spotlight, il film che spiega perché in Italia non esiste il giornalismo investigativo
Non sono le cose che fa, ma piuttosto il modo in cui decide di farle. Nonostante la civiltà occidentale dia ormai da decenni a tutti la sensazione di poter diventare ciò che si desidera, sono paradossalmente sempre meno quelli che riescono davvero a fare ciò che vogliono nella vita. E la professione, ovvio, è parte di essa. Coloro i quali riescono in questo obiettivo non sono giornalisti, calciatori, attori, comici, ingegneri per 8 ore al giorno e 40 ore a settimana. Lo sono sempre, e il loro modo di svolgere la professione non è che una delle tante manifestazioni del loro modo di essere.
Dopo “Birdman”, in cui Michael Keaton ha scelto di portare sullo schermo le implicazioni umane dell’ “essere” attore, il premio Oscar (e occhio perché Spotlight è candidato a ben 6 statuette), pur cambiando soggetto, si ripete, raccontando la storia vera del team “Spotlight” del Boston Globe, che nei primi anni Duemila ha messo mano per primo sul caso dei preti pedofili aprendo un vaso di Pandora di proporzioni mondiali.
Il senso della pellicola ruota tutto attorno al concetto di “lavoro-dovere”, e il velo di omertà che nel corso di chissà quanti anni (e chissà quante volte ancora) ha spinto avvocati, prelati, parenti delle vittime, reporter stessi ad insabbiare i casi è sintetizzato proprio dal rapporto non già con la propria professione, ma con il proprio io. I classici “facevo il mio lavoro” di nazistiana memoria si sprecano, e i cinque anni di distanza tra la scoperta delle prime denunce di abusi e l’esplosione del caso stesso rappresentano un intrinseco senso di colpevolezza di fondo in Robby (il direttore del team Spotlight interpretato da Keaton) al punto da spingerlo quasi a voler ottenere una redenzione per tutte le vittime che nel frattempo avevano a loro volta subito violenze. La vocazione del giornalista e quella umana si fondono, in lui come negli altri reporter più giovani e più puri, che anziché limitarsi a “raccontare una storia” rischiano addirittura di perdere un’esclusiva planetaria pur di scavare più a fondo possibile e accendere il riflettore (nomen omen) su tutto il meccanismo di silenzi e impunità che ha reso il sistema ben collaudato.
Sono rari, rarissimi i casi in cui, come questo, il giornalista diventa l’assoluto custode della Verità, e l’uso che sceglie di farne non dipende più dalla sua etica del lavoro, ma dal suo animo.
Senza dover a tutti i costi celebrare il modello giornalistico statunitense, che vanta di per sé parecchi peccati originali, il fatto che il giornalismo investigativo non sia, e non sia mai stata, una vocazione per molti reporter italiani suggerisce almeno due cose. Primo; si tratta di un modo di intendere il lavoro che logora, consuma (non è un caso che quasi nessuno dei protagonisti abbia un rapporto familiare stabile), impone confronti con la propria coscienza che trascendono dalla firma sul pezzo (eloquente la scena in cui Rachel McAdams è costretta a far leggere l’articolo alla nonna cattolica praticante) e per questo non tutti sono disposti a svolgerlo; secondo, rappresenta tutto il contrario del giornalismo autoreferenziale, egoistico, egocentrico e narcisistico che porta più facilmente un reporter a vendere la propria penna pur di vedere il proprio nome un gradino più in alto sulla piramide.
Per concludere quella che rimane una piccola digressione personale, il film agli occhi di un aspirante giornalista suggerisce inoltre un’importante Verità professionale: la vocazione che spinge in molti a voler fare questo mestiere “perché mi piace scrivere”, come spesso si sente dire in diversi ambienti formativi, è totalmente fuorviante. Tra le abilità e le caratteristiche necessarie, le doti di scrittura sono, in pratica, (quasi) le ultime della lista.
Daniele Dell’Orco
Daniele Dell’Orco è nato nel 1989. Laureato in di Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria nel medesimo ateneo. Caporedattore del sito Ciaocinema.it dal 2011 al 2013 e direttore editoriale del sito letterario Scrivendovolo.com, da febbraio 2015 è collaboratore del quotidiano Libero, oltre a scrivere per diversi giornali e siti internet come La Voce di Romagna e Sporteconomy.it. Ha scritto “Tra Lenin e Mussolini: la storia di Nicola Bombacci” (Historica edizioni) e, sempre per Historica, l’ebook “Rita Levi Montalcini – La vita e le scoperte della più grande scienziata italiana”, scritto in collaborazione con MariaGiovanna Luini e Francesco Giubilei. Assieme a Francesco Giubilei, per Giubilei Regnani Editore, ha scritto il pamphlet “La rinascita della cultura”. Dal 2015 è co-fondatore e responsabile dell’attività editoriale di Idrovolante Edizioni.