Senza gli editori indipendenti non esisterebbero i grandi editori
È nato prima l’uovo o la gallina?
Nel caso dell’editoria non ci sono dubbi: è nato prima l’uovo. Perfino quella grande gallina di Mondadori, che oggi assorbe tutto ciò che produce letteratura, in origine fu una piccola casa editrice indipendente il cui progetto iniziale era la letteratura formativa per ragazzi. Poi la fortuna ha voluto che con gli anni si ampliasse sempre di più, diventando il colosso dell’editoria commerciale che conosciamo oggi, pur mantenendo qualche perla di rara qualità.
Ciò che ha sempre differenziato il lavoro di un editore indipendente da un editore di catena è la ricerca di ciò che rientra nel proprio stile, di ciò che è di nicchia, forse, e meno commerciale, ma che permette al “piccolo editore” di offrire un bigliettino da visita chiaro e semplice: “Io pubblico questo. Io sono così.” Il grande editore, che ha iniziato esattamente in questo modo, con gli anni, ampliandosi, ha dovuto far fronte ad esigenze economiche impellenti che l’hanno portato a propendere, inevitabilmente, per una linea editoriale commerciale e di largo consumo. D’altronde ciò che vende permette di finanziare progetti meno spendibili, e questo vale per grandi e piccoli.
Ma è successo anche che alcuni grandi editori abbiano avuto la possibilità di rendere casi editoriali i talenti scoperti dagli indipendenti: per fare un esempio tutto italiano, Lorenza Ghinelli, finalista del Premio Strega 2012 con La colpa, è passata a Newton Compton dopo aver pubblicato con Il foglio letterario il suo Il Divoratore.
A questo proposito Kevin Duffy, co-fondatore della Bluemoose Books, in un articolo sul Guardian definisce l’editoria indipendente come “il reparto ricerca e sviluppo di una grande casa editrice”: “Troviamo grandi scrittori − continua Duffy −, li nutriamo, gli puliamo la fronte, lucidiamo il loro lavoro finché non brilla e poi li lasciamo liberi.” Questo è possibile perché l’editore indipendente, seppur non possa leggere tutto e non tutto ciò che gli arriva meriti di essere pubblicato, ha la possibilità di “gestire” i manoscritti come meglio crede, di leggere questo o quel romanzo e di scoprire, al suo interno, un talento grezzo da perfezionare. In un contesto più ampio ciò non accade, o accade di rado, anche a causa del consistente numero di mani in cui passano le bozze.
Badiamo a inutili moralismi e ricordiamo che anche una piccola casa editrice deve sopravvivere e fare i conti con il mercato, ma gode di un margine di manovra più ampio per farlo avendo la possibilità di investire su scrittori che si perderebbero in una realtà più grande. Lo stesso Duffy, a supportare questa tesi, racconta l’aneddoto editoriale che sta dietro uno dei suoi libri di punta, Pig Iron di Benjamin Myers, in principio rifiutato da una grande casa editrice perché “chi sarebbe interessato al personaggio della classe operaia di una piccola città del nord?”. La Bluemoose Books ha investito su questo libro, l’ha portato al Gordon Burn Prize, che ha vinto, e ora se lo tiene stretto nel suo catalogo.
Nella grande lotta tra colossi editoriali e piccoli editori che tentano di rimanere a galla, si dimentica spesso che anche i primi hanno iniziato dal nulla e che, senza gli editori indipendenti, non esisterebbero grandi editori. Ma soprattutto si dimentica, come ha scritto un anno fa su Il fatto quotidiano Gianluca Ferrara, direttore editoriale di Dissensi, che “il libro dovrebbe essere come un defibrillatore portatile che vuole rimettere in moto il cuore del lettore”. Due soggetti, libro e lettore, che troppo spesso si tengono fuori dall’equazione.
Federica Colantoni
Federica Colantoni nasce a Milano nel 1989. Laureata in Sociologia all’Università Cattolica nel 2013, pochi mesi dopo inizia il percorso di formazione in ambito editoriale frequentando due corsi di editing. Da dicembre 2014 collabora con la rivista online Cultora della quale diventa caporedattrice. Parallelamente pubblica un articolo per il quotidiano online 2duerighe e due recensioni per la rivista bimestrale di cultura e costume La stanza di Virginia.