Self(ie)-publishing, ovvero: preservare le risorse naturali del pianeta è cosa nobile e lodevole!
Leggo spesso sul web interessanti elegie riguardanti il self-publishing e gli allettanti vantaggi offerti dall’autoedizione letteraria all’autore del terzo millennio rispetto a ciò che può offrire il 99,9% degli editori. Addirittura il self-publishing s’è guadagnato un proprio adeguato spazio nell’ultimo Salone del Libro di Torino, con un incontro (griffato Amazon!) nel quale alcuni autori indipendenti hanno rilasciato i propri consigli su come autopubblicarsi e promuovere le opere così prodotte al meglio. Ovviamente leggo anche di prese di posizione contrarie sulla questione, ma senza dubbio lo stato quasi cadaverico dell’editoria italica, e l’etica professionale assai evanescente che sovente presenta, rende piuttosto allettante nella mente dell’aspirante scrittore-con-titolo-edito-in-curriculum la scelta di fare da sé. Lo capisco, sotto certi aspetti.
Lo capisco, sì, come – valutando le circostanze e contestualizzando gli elementi che ne traggo – capisco che ancora oggi vi possa essere gente che pensi che la Terra sia piatta, tuttavia non lo ammetto. Così come, mi spiace, ma non posso proprio ammettere il self-publishing, ovvero: capisco che rappresenti un sistema di pubblicazione di testi scritti alternativo alla classica filiera editoriale, ma non posso ammettere l’uso che tanti, troppi fanno di esso, e le motivazioni che adducono a sostegno di tale loro scelta.
Tra di esse si annoverano il controllo totale sul proprio lavoro senza interferenze altrui (ma pensare che se uno ti consiglia di usare quella copertina piuttosto che quell’altra è perché magari ne sappia più di te, no?), il controllo quasi totale dei diritti sul venduto, al netto della percentuale per la piattaforma di stampa e/o di distribuzione (già, perché autopubblicandoti speri ardentemente di diventare milionario!), i tempi tecnici ridotti (voglio il mio libro subitooooo!), le spese assolutamente basse da sostenere… Ma la motivazione principale a sostengo del self-publishing, alla fine, è da sempre quella che non serva (non servirebbe) l’imprimatur di un editore “vero” per poter diventare, ed essere considerato, uno scrittore. Certo, di scempiaggini in forma di libro parecchi editori, sia grandi che piccoli, ne pubblicano a iosa. Ma quanti autori indipendenti sanno veramente autoresponsabilizzarsi al punto da far vagliare attentamente i loro scritti da gente che se ne intenda veramente (e mica dalla mamma o dalla morosa o dal cugino professore o dall’amico d’infanzia!) prima di decidere di pubblicarli, ovvero prima di cedere alla voglia matta di vedersi il proprio libro, con il proprio nome e cognome stampato in copertina a caratteri ben visibili, tra le mani?
Inoltre: il voler pubblicare ad ogni costo (siamo sinceri, è questa in fin dei conti la base del self-publishing e la sua fortuna!) non è in principio la stessa cosa? Alla fine, allo scrittore che vuole essere tale non interessa che vi sia un editore (sovente sconosciuto, poi) dietro la sua opera: interessa l’opera, il libro, il tomo cartaceo o digitale da mostrare in giro e sul web. Il poter dire “io ho scritto un libro!” – senza poi perdere troppo tempo nello spiegare come lo si è pubblicato, ovvero in base a che sostanziali elementi critici, letterari ed editoriali. Il farsi self(ie)-publishing, in pratica: l’importante non è scrivere, è mostrare il libro scritto agli amici e sui social. E sentirsi finalmente assunti nel celestial empireo degli scrittori. “Scrittori”, già: perché poi, scrivere un libro significa essere scrittori, la regola diffusa e condivisa è questa. Non autori, scrittori. Vabbè.
Insomma: convincetemi che in tema di self-publishing non possa essere valida la ben notateoria delle finestre rotte, se potete. Che vale, e lo dico da subito, con l’editoria tradizionale – anzi, vale soprattutto con la grande editoria, coi suoi libroidi che non hanno alcun valore letterario imposti come mode irrinunciabili e venduti come fossero detersivi al supermercato – e dunque non vedo perché il self-sublishing ne sarebbe immune. Non vedo perché possa salvarsi dal modus vivendi e operandi imposto dalla società contemporanea – apparire, mostrarsi, esibire, ostentare, pavoneggiarsi, far sapere in ogni modo di esserci (per non sentirsi fuori dal giro (?), emarginati, ignorati, con troppi pochi “like” sui social… self(ie)-publishing, appunto! – proprio il sistema di pubblicazione editoriale più semplice, immediato e meno filtrato che sia disponibile oggi, cioè il più affine alla società liquida contemporanea. Perché pure nell’editoria tradizionale ci saranno tantissimi vetri rotti, ma tutto sommato – soprattutto tra gli editori indipendenti – resta qualcuno in grado di poterli sostituire o quanto meno riparare. Nel self-publishing, invece? Il giudizio dei lettori? Uh, sai cosa può interessare a quei tanti che si credono pronti per il Nobel letterario soltanto perché hanno scritto qualcosa – ovviamente ritenuto un capolavoro assoluto!
Eppoi, diciamoci la verità: cos’è tutta ‘sta foga di voler scrivere, e ancor più di dover pubblicare su supporto solido cartaceo (che alla fine si vede sempre meglio che un mero e inevitabilmente virtuale ebook) in ogni modo possibile ciò che si è scritto? Che senso ha, se poi dobbiamo considerare che in giro non vi sia un’analoga foga di voler leggere? Ma a questo punto non crediamo – tutti quanti, sì – che pure l’impegno per la conservazione delle risorse naturali del pianeta, in special modo quelle boschive così terribilmente sfruttate per ricavarne carta poi utilizzata in modo parecchio discutibile, sia un’azione profondamente nobile e lodevole?
Tutto ciò, ribadisco per concludere, sapendo perfettamente che un sacco di editori – o pretesi/presunti tali – sono degli emeriti cialtroni, almeno in numero proporzionale a quello degli scrittori – o pretesi/presunti tali. Ma questo, in ogni caso, è un altro discorso.