Quarant’anni di politica: i misteri del caso Moro a Book Pride
ll tepore primaverile è arrivato anche a Milano, e ieri 25 marzo, dalla Sala Bovary di Book Pride presso il Mudec, questo cambiamento meteorologico si avverte tra i presenti.
Non si tratta, però, solo di un calore esterno. È l’interesse nei confronti dell’argomento da trattare, che si percepisce maggiormente.
In occasione della presentazione del libro ”Il Caso Moro” di Gianni Oliva, si rende omaggio a uno dei protagonisti della vita politica italiana che ne ha cambiato anche le identità.
Gli anni di piombo – così definito il periodo di tempo ricompreso tra il 1973 e il 1982 – sono particolarmente cari all’autore perché vissuti in prima persona. Allo stesso periodo, ha dedicato infatti, un altro testo, sempre edito da Edizioni del Capricorno, opera pubblicata per ricordare il quarantennale, lo scorso 29 dicembre 2017, dalla morte di Carlo Casalegno, vice direttore de “La Stampa”, anch’egli assassinato dalle Brigate Rosse.
Una ricostruzione dei fatti, operata da chi in quel periodo viveva le situazioni e i sentimenti contrastanti che interessavano il paese e condotta quindi, con viva partecipazione. Perché se una realtà la vivi, è difficile estraniartene.
Fatti ricostruiti sui lavori della magistratura e delle inchieste parlamentari e raccontati con estrema precisione, e anche tanta passione, dall’autore.
E questi anni di piombo, per le importanti modifiche nel panorama politico e sociale italiano, sottolinea Oliva, sono da affiancare anche a “quelli del tritolo” di piazza Fontana, di piazza della Loggia, dell’Italicus, degli attentati di destra.
I motivi che inducono poi alla spinta rivoluzionaria apportata dalle BR sono certamente da ricondursi allo stridore che permeava l’Italia.
Ricorda l’autore, che all’inizio degli anni ’60 la situazione non era certo di facile gestione: è il caso di Franca Viola, una ragazza siciliana che con il suo esempio, ha portato la prima tappa per l’emancipazione femminile. Rapita e stuprata dall’ex fidanzato, rifiuta per la prima volta nella storia, di ricorrere al matrimonio riparatore che, come previsto dall’articolo 544 del codice penale, abrogato poi nel 1981, permetteva al reo di essere liberato dalla colpa di aver commesso il fatto.
È il tempo in cui Oscar Luigi Scalfaro, giovane magistrato, schiaffeggia una ragazza perché indossa un vestito troppo scollato e il suo gesto viene persino applaudito, a significare il grande sentimento puritano tra il popolo italiano.
E ancora, ricorda l’autore, sono gli anni delle gemelle Kessler, le quali vengono censurate perché ballano in televisione col tutù.
Di certo si ha di fronte un’Italia retrograda, che non sa o, forse, non vuole fare passi avanti.
Poi arrivano i primi enormi cambiamenti dettati dalla volontà di emergere, di andare avanti, di sentirsi parte di quell’Europa che uscita dalla guerra pensa solo a migliorarsi.
Cominciano gli anni degli acquisti dei primi elettrodomestici che rivoluzionano la vita: lavatrici, televisori, telefoni di casa e poi le automobili.
L’evoluzione prende una piega diversa quando lo stridore dell’Italia contadina incontra l’avanguardia: da qui partiranno numerose manifestazioni rivoluzionarie. Prime fra tutti quelle sessantottine che hanno visto rivolte, fra le altre, contro i nascenti valori della società capitalista.
Sarà infatti il proletariato delle catene di montaggio, a muoversi sempre più in questa direzione. Le motivazioni secondo l’autore sono diverse: la frustrazione sul piano professionale, l’arrabbiatura dal punto di vista morale e l’obbligo di spostarsi nel triangolo dell’ovest italiano, area ricompresa tra Genova, Milano e Torino che fa del proletario un soggetto insoddisfatto rispetto a quanto l’Italia è capace di offrirgli; le maggiori rivendicazioni riguardano certamente il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici.
In quegli anni, quindi, l’Italia si sposta inesorabilmente verso sinistra, e in conformità di quanto già avviene nel resto d’Europa, risulta essere divisa in due parti: ci sono infatti paesi dell’est europeo che non saranno mai democratici e paesi dell’ovest europeo che non saranno mai comunisti. L’adeguamento a tale “regola” internazionale allora vigente, crea per l’Italia una sorta di giustificazione.
Si assiste pertanto alla nascita della destabilizzazione, una reazione al quadro sopra illustrato, sbagliata, ma seguita da molti in quel periodo, una tecnica, in realtà, con cui da sempre i regimi al potere cercano di rafforzarsi. Si assiste al sorgere di Potere Operaio, Lotta Continua e collettivi autonomi come quello di Milano.
L’Italia conosce il conflitto e lo scontro, come se non fosse già stata abbastanza martoriata dalle recenti guerre mondiali, in risposta all’impossibilità che il blocco di CIA e Stati Uniti, opponevano alle vie rivoluzionarie che la nazione voleva intraprendere, blocco che si poneva in contrasto con l’evoluzione naturale che in quel periodo la interessava.
Chi aderisce a questo pensiero, scegli quindi di mettersi in mostra e la strada del terrorismo è quella che più crudelmente pone in essere tale scelta.
Nasce il movimento delle Brigate Rosse che cominciano ad innestarsi a Milano, reclutando aspiranti compagni nella fabbriche di Sit-Siemens e Magneti Marelli.
Torino è la città dove è possibile incontrare le contraddizioni più marcate.
L’insediarsi delle Brigate Rosse, ricomprende una escalation di eventi. Si attaccano per primi i capi reparto delle fabbriche. È chiaro, che l’aiuto di militanti del movimento interni alla fabbrica è un porto sicuro: conoscere esattamente i movimenti del capo reparto in questione, quale fosse la sua auto, la via dove abitava, erano sicuramente informazioni che poteva avere solo chi, ogni giorno, vi condivideva le ore di lavoro.
Attaccare gli operai non sortisce, però, molti effetti. È per questo che l’attenzione viene posta sullo Stato, che viene colpito nei suoi rappresentanti.
Mario Sossi, procuratore di Genova,viene rapito, Francesco Coco, procuratore generale di Genova viene invece ucciso e stessa sorte avrà anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce.
È fondamentale la figura dell’avvocato Croce nel processo contro Renato Curcio, Alberto Franceschini, Paolo Maurizio Ferrari e Prospero Gallinari, capi storici delle BR; l’avvocato infatti accetta l’incarico della difesa d’ufficio prevista per legge. Le BR cercano di bloccare il processo perché affermano che lo stato non possa in alcun modo impedire le loro idee rivoluzionarie, ricusano i propri avvocati e minacciano di morte i difensori d’ufficio che gli verranno assegnati. E, di fatto, mantengono la parola.
Colpiti operai, magistrati e avvocati, le Brigate Rosse non si fermano e decidono di andare avanti nella loro crudele opera: mettono sotto scacco i rappresentanti dello Stato tra cui funzionari di polizia, brigadieri, guardie carcerarie, quelli che, in sostanza, rappresentano come dice Oliva, l’aspetto più immediato del sistema repressivo.
La folle opera rivoluzionaria prosegue con gli attacchi al partito, la Democrazia Cristiana, in cui a loro giudizio, si trovano i rappresentanti d’Italia, dello stato imperialista delle multinazionali.
Pensano che il loro obiettivo sia un passaggio obbligato per ottenere quello che tanto rivendicano. In realtà quello che contrastano, la globalizzazione, non sono poi in grado di combatterla, perché sbagliano gli strumenti, si approcciano al loro obiettivo con strumenti non adeguati.
A questo punto Oliva cerca di dare una risposta alla domanda postagli in apertura da Roberto Marro, capo redattore di Edizioni del Capricorno: perché proprio Aldo Moro e non qualcun altro come Giulio Andreotti o Amintore Fanfani?
Il motivo principale è da ricondursi al fatto che Moro in quei momenti non riveste incarichi istituzionali; è Presidente della Democrazia Cristiana ma non ricopre alcun mandato di governo o parlamentare.
Era il politico, fra tutti della DC, più abitudinario e la sua routine di movimenti ha permesso alle BR di pedinarlo per cinque mesi prima di procedere con l’attacco di via Fani.
Un attacco che Oliva definisce esemplare dal punto di vista militare.
Moro prima di essere sequestrato quel giorno, usciva di casa con la scorta da via Forte Trionfale. I brigatisti erano già appostati, avevano macchinosamente preparato ogni mossa.
Mario Moretti, capo della colonna romana che esegue l’azione, si trovava alla guida di una vettura con una falsa targa del corpo diplomatico e per tale motivi qualsiasi azione da lui compiuta, non avrebbe potuto destare alcun sospetto.
Sarà una giovane brigatista che stringe un mazzo di fiori in mano, che sembra essere lì in attesa di qualcuno, a fare da palo e segnalare a Moretti il momento in cui le macchine della scorta stanno arrivando.
Moretti con la macchina si infila davanti alle due della scorta e procede a velocità elevata, dopo cinquecento metri circa, ricorda l’autore, è presente un incrocio dove bisogna arrestarsi per la presenza di uno stop. È qui che la macchina di Moretti inchioda, facendo di conseguenza inchiodare anche quelle della scorta, ormai dietro di lui, ulteriormente impedite da altra vettura dei brigatisti postasi di traverso.
Sono quattro gli uomini che indossano divise da stewart dell’Alitalia che esplodono novantacinque bossoli, almeno questa è la quantità di quelli ritrovati, quarantuno dei quali vanno a segno.
Non si può certo dire si trattasse di tiratori esperti, considerando che molti colpi sono stati sparati a ridosso del vetro delle auto; poco si comprende la necessità ad esempio di sparare così tanto.
Rimangono uccisi nell’agguato i due carabinieri presenti nell’auto con Moro e i tre uomini della polizia nella macchina dietro.
Moro viene solo rapito, il vetro posteriore dell’auto non venne scalfito, segnale questo che da quell’agguato Moro doveva uscire vivo.
E da qui l’elaborazione di tante tesi complottiste: c’è chi sostiene che il rapimento di Moro sia stato voluto dalla CIA, perché Moro favoriva l’ingresso dei comunisti nell’area di governo; d’altra parte, invece, c’è chi sostiene che il sequestro sia stato voluto dal KGB praticamente per la stessa ragione, in quanto Moro toglieva al partito comunista la vocazione di opposizione. E c’è poi chi dice che l’attacco sia stato voluto dal Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, perché Moro era responsabile dell’accordo concluso con i Palestinesi all’inizio degli anni ‘70 secondo il quale questi ultimi potevano far circolare armi in territorio italiano e in cambio non avrebbero compiuto attentati in Italia.
Se Moro era così inviso ai nemici, agli oppositori, perché rapirlo? Non sarebbe stato più immediato e risolutivo ucciderlo durante l’attacco di via Fani? Queste domande vengono lasciate dall’autore come spunto di riflessione per tanti punti ancora oscuri.
Altro elemento poco chiaro è quello riguardante la gestione dei giorni del rapimento, ad un’azione militarmente esemplare, ne sortisce una che politicamente ha l’effetto opposto.
L’uccisione di Moro viene fortemente condannata dal popolo italiano: i cittadini, nonostante le diverse divergenze del periodo, tra il crimine e lo Stato hanno scelto lo Stato.
E perché si ha questa reazione?
Innanzitutto perché il sentire comune aveva già avvertito da tempo che il ‘78 non era certo l’epoca della rivoluzione e non era certo col sangue che, in tempo di pace, poteva rispondersi ai disagi politici e sociali che interessavano l’Italia del tempo.
Ed Oliva dà lo spunto per una profonda riflessione a tal proposito. Afferma l’autore, che di per sé l’atto terroristico non è un atto illegittimo: si pensi, dice, a Sandro Pertini, il quale venne condannato a dieci anni di carcere perché nel 1929 programmava di far saltare Palazzo Venezia, sede del quartier generale di Mussolini.
Ma qui oltre al fatto di rilevare l’impossibilità dal punto di vista militare di realizzare l’attentato, l’ideologia si ricollegava alla tradizione del regicidio, quello che Vittorio Alfieri aveva teorizzato nel ‘700 come modo di difendersi dall’autoritarismo.
Anche a Torino e Milano in tempo di guerra non mancarono infatti atti di contrapposizione al regime, ma si parla di un’Italia occupata da nazisti e fascisti.
Nel ‘78 si ha di fronte, al contrario, un’Italia democratica, è tempo di pace, niente giustifica questi attacchi così violenti.
Tante sono le convinzioni che hanno i brigatisti su Moro, che sono destinate a rimanere come tali, una su tutte che quest’ultimo fosse un uomo degli americani.
Altri sono invece le cose sulle quali vale la pena di ragionare: il fatto che i terroristi provengano da Potere operaio, Lotta continua e i collettivi autonomi, che siano spesso di formazione cattolica.
Lo stesso autore confessa essere stato un militante di Lotta Continua senza però aver mai dato problemi di ordine pubblico e a differenza di altri, ha trovato la sua “salvezza” nella paura. La paura fisica dello scontro e le possibili conseguenze morali di quello che avrebbe potuto porre in essere hanno agito da freno impedendogli di compiere qualsiasi atto potesse ledere chi aveva di fronte.
Quello che si può notare in ogni azione brigatista è stata fin dall’inizio, la spettacolarizzazione dei fatti.
Il 12 febbraio 1973 rapiscono il segretario dei sindacalisti della CISNAL di Torino, sindacato metalmeccanico fascista, Bruno Labate, fatto ritrovare incatenato a un lampione in corso Tazzoli, che attraversa la fiera di Mirafiori, con un gesto plateale: il sindacalista viene collocato lì ad un orario di punta per il mondo operaio, vista la coincidenza della fine del turno precedente e l’inizio di quello successivo nelle prime ore del pomeriggio.
La scena è stata vista da migliaia di operai.
La spettacolarizzazione è sfruttata su diversi fronti. Questa certamente ritorna nella comunicazione.
Tutti i comunicati delle BR relativi al caso Moro, vengono fatti trovare a Genova, Torino, Milano e Roma anche se in realtà sono battuti a macchina a Firenze nella direzione strategica brigatista.
Ai comunicati delle BR, inizialmente lo Stato non risponde, si irrigidisce. Trascorsi i cinquantacinque giorni ci si rende conto che si poteva mediare in modo diverso, ad esempio fa presente Oliva, la soluzione poteva trovarsi contrattando il rilascio di Moro, per una brigatista che non si era macchiata di fatti di sangue, Paola Besuschio peraltro ammalata. L’accordo, in fondo, non avrebbe cambiato così profondamente i rapporti tra Stato e BR, ma la storia si sa dà il grande vantaggio di guardare i fatti a posteriori.
Moro, vista l’iniziale rigidità dello Stato, capisce che se vuole salvarsi deve trattare lui stesso. Sono ben novantasei le sue lettere: alcune riportano le sue lagnanze nei confronti della DC, nei confronti del mancato e immediato intervento, altre sperano in un intervento del pontefice, cui Moro era particolarmente legato, essendo anche presidente della F.U.C.I., la Federazione Universitaria Cattolica Italiana.
Seguono poi numerose lettere alla famiglia dal contenuto struggente e più straziante; la scelta di centellinare la pubblicazione delle missive da parte dei brigatisti è usata ancora una volta, come strumento di spettacolarizzazione.
Le lettere di Moro vengono trascritte da Prospero Gallinari mentre sarebbe il solo Moretti ad averlo interrogato; ad un certo punto, secondo quanto affermato dallo stesso Moretti, Moro, invece che riferire solo verbalmente decide di scrivere e le sue lettere vengono poi ritrascritte da Gallinari: molti sono infatti gli errori di sintassi presenti nelle trascrizioni, considerato il grado di istruzione dello stesso Gallinari, in possesso della licenza elementare.
Di fondamentale importanza tra gli scritti di Moro è il Memoriale, ritrovato all’inizio degli anni ‘90 a seguito di lavori di ristrutturazione, nell’appartamento di via Monte Nevoso a Milano, zona Lambrate, ex covo brigatista, poi dissequestrato e venduto.
La scoperta del covo fu provvidenziale. Origina, infatti, dal ritrovamento di un borsello smarrito da un brigatista a Firenze all’interno del quale vi erano, un mazzo di chiavi, dei volantini di matrice brigatista e le chiavi di una moto con indicata anche la targa. Una volta risalite alla targa, le indagini portano a Milano, dove ha sede la concessionaria presso la quale è stato acquistato il motoveicolo in questione.
Conferme del venditore porteranno i carabinieri del nucleo speciale di Dalla Chiesa ad approfondire le ricerche. Dai loro racconti, dice l’autore, risulta che ogni notte, accompagnati dalle mogli, questi andassero a provare il mazzo di chiavi ritrovato, portone per portone. Trovato lo stabile, cominciano ad appostarsi e le indagini permettono loro di arrestare Nadia Mantovani, Mario Moretti e Laura Zulini. Le perquisizioni iniziali non avevano permesso di ritrovare il memoriale: unico posto non battuto dai carabinieri fu il davanzale dove invece era presente un’intercapedine che lo nascondeva.
Molti sono i dubbi sul caso Moro, così come molte sono le inefficienze riscontrate.
Un esempio di noncuranza è quello di via Gradoli, dove in un appartamento si trovavano Barbara Balzerani e Mario Moretti. È un incidente domestico a far scoprire l’appartamento. Dimenticano, infatti, l’acqua della doccia aperta, i vicini del piano inferiore chiamano i pompieri i quali rinvengono, una volta sul posto, dei volantini propagandistici brigatisti. Da lì la chiamata ai carabinieri, cominciano le perquisizioni e si attira l’attenzione di tutti. L’errore è stato nel non aver pensato di appostarsi come più avanti è stato fatto per l’appartamento di via Monte Nevoso a Milano. Una grave inadempienza questa, che, se fosse stata gestita con più cura e cautela, forse, avrebbe permesso di far rinvenire il presidente della DC ancora in vita.
Altre incongruenza si ritrova nel fatto che via Gradoli era già una localizzazione venuta alle orecchie della polizia. Sarebbe stato Romano Prodi che avrebbe sporto denuncia appunto alla polizia indicando quel luogo perché, racconta l’autore, nel corso di una seduta spiritica cui Prodi avrebbe assistito, alla domanda “dov’è Aldo Moro” lo spirito invocato avrebbe risposto “Gradoli”. Si cercherà erroneamente in un paesino del Lazio, nei pressi di Viterbo, e non si penserà invece minimamente alla via.
Forse qui, ribadisce l’autore, la seduta spiritica copre l’informazione, che sarebbe arrivata alle orecchie dello stesso Prodi. Anche questo rimane mistero.
Qualcuno ha voluto giocare su queste inefficienze e contraddizioni?
Altre incongruenze si ritrovano al momento dell’attentato: si parla di una Honda con a bordo due individui che avrebbero partecipato e presenziato ma non sono mai stati identificati; qualcuno ha pensato ai servizi segreti.
C’è ancora però, chi, nonostante le risoluzioni giudiziarie, come Alessio Casimirri, ha partecipato all’agguato ma non ha scontato un singolo giorno di carcere per questo.
È scappato infatti in Nicaragua, ha sposato una donna del posto acquisendo la cittadinanza locale, ha avuto la possibilità di rifarsi una vita, aprendo lì un ristorante, possibilità che si è arrogato il diritto di sottrarre, invece, a chi quel 16 marzo di quarant’anni fa, faceva solo il proprio dovere.
Certo è che se ha potuto fare una scelta del genere le risorse finanziarie non gli sono mancate. Oliva, infatti, ricorda che il padre di Casimirri, Luciano, era il capo ufficio stampa del Vaticano.
Le tante imprecisioni nella trattazione di questa vicenda non renderanno mai giustizia a chi vi ha perso la vita.
Lo Stato ha perso nel momento dell’attentato, nel momento successivo, la prigionia di Moro durata cinquantacinque giorni, svoltasi probabilmente in un’unica sede, un appartamento in via Montalcini che le stesse BR avevano attrezzato a tal fine.
Fino all’ultimo, in una Roma assediata da posti di blocco riescono ad agire indisturbati: portare il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana, in via Caetani in pieno centro.
Tanti sono gli atti violenti che avrebbero potuto evitarsi, tante sono le strade che potevano intraprendersi per arrivare a risultati diversi.
Certo è che, sottolinea Oliva, molta attenzione bisogna porre al retroterra delle parole: sono queste che poi accompagnano i gesti, anche se indirettamente.
L’autore ricorda però di non sovrapporre la ricostruzione del mistero con l’idea di un complotto a monte, perché la storia non è così schematica.
E ci si può solo trovare d’accordo con l’autore quando dice che trova indegno che tanti fautori del terrorismo, dei sanguinari vengano invitati nelle università per spiegare i motivi per cui tanto hanno enfatizzato “la guerra”. Tra i corridoi universitari deve ricordarsi l’impegno di chi quella guerra di sangue l’ha combattuta a caro prezzo.
Pur risultando poi vincitore, sono molte le concessioni che lo Stato farà, prima fra tutti la legge dei pentiti che se dal lato etico può sembrare sbagliata, di fatto, per la stessa ragion di Stato è stata lo strumento che ha permesso di sconfiggere le Brigate Rosse.
Il popolo ha saputo da che parte schierarsi, quello della giustizia, ed è questo che dobbiamo sempre ricordare: perché siamo quel che facciamo non quello che diciamo.