Pop da licenza elementare? Forse anche peggio
Ho letto di recente un articolo di Paolo Giordano per Il Giornale dove parlava, in maniera alquanto critica, della qualità dei testi della musica pop, principalmente americani e inglesi, degli ultimi anni. L’articolo, scritto con intelligenza e arguzia, mi ha dato da pensare a quella che è, al giorno d’oggi, la qualità dei testi pop che gli artisti italiani ci propongono continuamente: il risultato è stato agghiacciante.
Paolo Giordano cita nel suo articolo il test di Flesh Kincaid: una formula, creata a metà degli anni settanta, che serve a misurare quale sia il livello di comprensibilità di un testo inglese; in sostanza quanto il testo sia “colto”. Il test è stato “adattato” anche per la nostra lingua da Roberto Vacca e Valerio Franchina, che ne hanno proposto due versioni, la prima nel 1972 e la seconda, più aggiornata, nel 1986. E se oggi questo test venisse ripetuto?
Spontaneamente, la mia mente ha paragonato gli attuali testi della musica pop a quelli di una decina di anni fa, e anche a quelli più datati di artisti del calibro di Guccini, Gaber e De Andrè. Il confronto non regge. La musica italiana moderna è ricca di frasi banali, che rasentano la capacità descrittiva di un fanciullo che ha appena iniziato a posare la penna sul foglio; testi ricchi di ripetizioni, mancanza di sinonimi, metafore di basso livello, rime sbagliate e metrica confusa.
Ho provato a confrontare i testi di due canzoni che parlano dello stesso tema, il più semplice e gettonato nella musica italiana, l’amore; i testi sono Cigno Nero di Fedez e Se ti tagliassero a pezzetti di Fabrizio De Andrè. Bene, ora citando il primo, in riferimento alla donna amata abbiamo: “sei bella e dannata la metà mancata di una mela avvelenata e io cerco il sollievo in una dose di veleno chi è stato allattato da chi ha le serpi in seno”; mentre citando il secondo, riferendosi sempre alla dolce metà: “ti ho trovata lungo il fiume che suonavi una foglia di fiore che cantavi parole leggere, parole d’amore ho assaggiato le tue labbra di miele rosso rosso ti ho detto dammi quello che vuoi, io quel che posso”.
Il risultato è presto visibile innanzi ai vostri occhi: la differenza è abissale. Vorrei precisare che non si parla della differenza di statura culturale, evidentemente presente, dovuta al cambiamento dei tempi, alle richieste del mercato, all’humus sociale e alle mode. Qui si parla dell’abbassamento del livello linguistico e della pochezza del vocabolario di una canzone pop moderna: la sua banalità, la sua faciloneria. Ma la colpa dove sta? La colpa di chi è? Forse della sempre più evidente mancanza d’abilità nell’uso della lingua da parte di parolieri e autori? Forse nel basso livello del bagaglio culturale dei fruitori di tale musica? Forse, come dice Giordano, un segno dei tempi? Quale che sia la risposta la “cattiva strada” intrapresa non sembra voler mutare il suo percorso. Che sia davvero finita, per la musica italiana, l’era della canzone colta e di spessore? Ai posteri l’ardua sentenza.