Paolo Robotti e l’Urss. Un caso di revisionismo, da sinistra
Nell’anno del centesimo anniversario della doppia rivoluzione russa, quella menscevica di febbraio (metà di marzo secondo il nostro calendario) e soprattutto quella bolscevica di ottobre (novembre in occidente) la pentola italiana ribolle di una serie di appuntamenti atti a rievocare, forse stigmatizzare e persino celebrare quello che fu uno dei più giganteschi avvenimenti di tutto il XX secolo e che produsse, oltre a enormi sconvolgimenti geopolitici, uno dei regimi più satrapeschi e sanguinari che la storia ricordi. Si, persino celebrare: qualche impenitente nostalgico esiste ancora, nel paese in cui una grande città – Torino – intitola proprio all’Unione Sovietica un importante corso cittadino e dove in una piazza emiliana – quella di Cavriago – resiste un busto di Lenin.
Il comunismo fu un ago della bilancia del Novecento. Tutto ciò che vi accadde intorno fu anche una risposta, una reazione a esso. Con ciò non vogliamo dire, come tendeva a fare Ernst Nolte, che il fascismo e il nazionalsocialismo fossero pura reazione al sistema sovietico, ma si trattò in parte anche di questo, ciò che naturalmente non scagiona i sopraccitati regimi dalle loro responsabilità successive.
Vero è che la forte presenza comunista in Italia nel secondo dopoguerra, quasi un avamposto sovietico in pieno occidente, giustifica (almeno sino allo strappo di Longo-Berlinguer che seguì i fatti di Praga nel ‘68 – ma a detta di certi osservatori ben oltre) l’interesse di molti italiani per tale ricorrenza, interesse ancora vivo sia tra coloro che ne esaltarono le intenzioni, sia tra chi ne contrastò i valori alle fondamenta. L’arguta quanto provocatoria frase che Giulio Andreotti pronunciò all’indomani della caduta del Muro di Berlino («amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due») è in tal senso emblematica.
Ma l’articolo che state leggendo non vuol essere una semplice damnatio nei confronti della patria del socialismo realizzato: piuttosto, un’occasione da una parte per ricordare una della figure che in Italia ne incarnarono al meglio gli umori, e cioè Paolo Robotti (1901-1982), dall’altra l’opera di revisionismo in cui lo stesso Robotti s’impegnò nella logica di un Pci togliattiano succube di Stalin, quindi nella creazione di un’immagine quanto mai edificante dell’Unione Sovietica come patria della pace, della democrazia e delle opportunità.
Al principio degli anni Cinquanta, questo signore piemontese era tra i più convinti servitori della chiesa comunista. Filosovietico di ferro ancor più del cognato Palmiro Togliatti, pubblicò un’opera in due volumi oggi purtroppo pressoché introvabile che intitolò Nell’Unione Sovietica si vive così e che, composta da 200 domande e relative risposte, ogni militante sventolava con orgoglio citandone i pochi passi che aveva (forse) realmente letto. Più che un documento utile per comprendere la società sovietica, il libro di Robotti era un documento fondamentale per non conoscerla: una specie di Bibbia o di Corano rosso, solo più integralista e ligio alla fede, che naturalmente era quella della falce e del martello. Un libro di propaganda sovietico oggi dimenticato ma che ci racconta qualcosa di quella parte d’Italia (e d’Europa occidentale) che s’era invaghita del paese del socialismo realizzato. E noi ne abbiamo estratto qualche stralcio tra alcuni di quelli che ci sono sembrati più interessanti:
«Domanda n. 20: Quali furono le mansioni di Stalin? Risposta n.20: Erroneamente molti credono che Stalin avesse poteri dittatoriali. Non è affatto così. Lui era solo il discepolo di Lenin. Stalin imparò tutto dal popolo […].
Domanda n. 76: Come si esercita la libertà di critica nell’Unione Sovietica? Risposta n. 76: Non c’è nessun altro paese al mondo dove la critica si eserciti in modo così libero e senza alcun controllo […].
Domanda n. 122: Si parla di deportazione in Siberia per coloro che criticano, è vero? Risposta n. 122: No! fra gli intellettuali occidentali si crede che ogni critica fatta agli intellettuali abbia una sola soluzione: la Siberia. Sciocchezze. La Siberia è un territorio moderno, di immense fabbriche e fattorie agricole […]. Gli intellettuali lavorano come vogliono e in totale libertà. È al contrario che in Occidente, dove attorno a loro si crea il vuoto e l’avvilimento […].
Domanda n. 123: È vero che nell’Unione Sovietica esistono campi di lavoro forzato? Risposta n. 123: Ci troviamo da tre anni di fronte ad una campagna antisovietica. Chiunque [sia] stato nell’Urss sa che il preteso lavoro forzato nell’Unione Sovietica non esiste; esiste solo qualche campo di lavoro correzionale, per fannulloni, ladri, assassini, delinquenti comuni, dove si lavora solo sei, sette ore al giorno, e vi sono campi sportive, biblioteca, filodrammatiche e vacanze in famiglia»114.
Il lettore, non ne dubitiamo, si sarà parecchio divertito, e il suo divertimento si aggiunge al nostro. Per Robotti l’Unione Sovietica era la vita, vita che evidentemente fece di tutto per distorcere: in Urss, dove finì in esilio durante gli anni del fascismo, fu imprigionato perché sospettato di spionaggio e persino torturato. Ma fu un esilio che egli tuttavia dovette vivere con lo stesso trasporto ed entusiasmo con cui i grandi intellettuali europei – da Montaigne a Goethe, da Montesquieu a Stendhal – calavano in Italia per completare la propria formazione culturale. Tornato in Italia, i vertici del Pci riconobbero a Robotti una ferma dedizione al Partito e lui, traboccante d’orgoglio, fece di tutto per alimentare tale convinzione: scrisse sui giornali comunisti, collaborò alla creazione della famigerata Scuola delle Frattocchie, contribuì insomma ad alimentare un’organizzazione che rappresentò tra le altre cose la più complessa (ma anche la più seria) burocrazia che l’Italia del Novecento annoveri. Morirà a Roma, la città in cui aveva scelto di andare ad abitare dopo la fine del suo esilio russo.
Sono trascorsi 35 anni dalla morte di Robotti e 65 dalla pubblicazione della sua opera capitale: non sarebbe male se qualche editore provvedesse prima o poi a ristamparla; non per irridere (sarebbe troppo facile) il comunismo e quel rabberciato gruppuscolo di politici che ancora in fondo in fondo solleticano quei tempi con nostalgia; piuttosto, ora che ha perso ogni valenza propagandistica e crediamo anche politica, per inquadrare l’opera di Paolo Robotti nel posto che le spetta: che è l’agiografia, si capisce; ma anche e soprattutto un ben preciso scaffale della storia.
Marco Testa
Nato nel 1983 e cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storico-archivistici e musicali. Autore di saggi e numerosi articoli, scrive su “Cultora” e su “Il Corriere Musicale”. Lavora presso istituti storici e musicologici; recentemente è stato invitato dal direttivo dello Xenia Ensemble a moderare alcune conferenze nell’ambito del Festival di musica contemporanea “EstOvest”. Adora (quasi) tutto ciò che è Musica, il mare, la letteratura di viaggio, la letteratura e il cinema horror, gli antichi borghi, la storia e la cultura della sua Sardegna, il buon cibo e molto altro. Vive a Torino dal 2008.