Il panorama musicale: staticità e zero innovazione?
Lo scorso 8 agosto il Corriere del Mezzogiorno, noto giornale del Sud Italia, ha pubblicato un articolo intitolato: Rock band e cantautori a Napoli: gli eterni emergenti. Nell’articolo si parlava di band e musicisti napoletani che da anni, pur suonando e componendo musica di qualità, non riescono ad avere a livello nazionale e internazionale lo spazio che meriterebbero.
Ho letto l’articolo e le parole di Alessandro Chetta. Le ho lette più volte e la domanda è sorta spontaneamente, una domanda terribile che, solitamente, quando viene pronunciata, scatena irrefrenabili discussioni, dirompenti litigi e durissimi scambi d’opinione tra fans ed esperti di musica: com’è possibile che in Italia, pur essendoci un’infinità di gruppi di qualità, di valore, che vengono definiti “emergenti”, pur avendo migliaia di fan e molti album alle spalle, si continuino ad ascoltare e a sentire sempre gli stessi nomi?
Effettivamente in maniera alquanto rara si sentono per radio le canzoni di musicisti emergenti, troppo spesso intasate dalla musica dei “soliti nomi”, must della musica italiana, che spesso e volentieri hanno diritto al loro classico posto in prima linea, conquistato sulla base dei fasti passati, e che permette loro di riempire le nostre giornate con l’ultimo singolo che ricorda, molto più che vagamente, qualche successo già sentito.
Effettivamente non si sente mai parlare di tour negli stadi di artisti come Marta sui Tubi, che pure vantano collaborazioni con grandi come Lucio Dalla e Battiato, o di un rapper del calibro di Caparezza, certo non un’esordiente ma forse un emarginato, che nei suoi testi non parla tanto di sesso e vita dura nei quartieri della Milano “bene”, ma di politica e temi sociali di spessore.
Effettivamente troppo raramente si dà spazio alla qualità e alla musica giovane, fresca, emergente, che si sa non fa muovere bene il mercato musicale.
Certo, forse doverosa è una distinzione tra gruppi realmente emergenti, che ancora devono percorrere molta strada ed uscire dalla notorietà del solo paese di origine o al massimo regionale − come Cucina Sonora, pianista elettronico toscano, o i The Exploder Duo, irpini di nascita −, gruppi che hanno avuto, e hanno tutt’ora, un ottimo pubblico e le loro occasioni per emergere − come i Blastema, partecipanti al Festival di Sanremo nella categoria giovani dell’edizione 2013, o Giovanni Block, targa SIAE al premio Tenco 2007 − e infine i gruppi che sono stati emergenti fino a qualche anno fa e che sono riusciti a conquistare una fetta di pubblico abbastanza vasta all’interno del panorama musicale italiano, ma che comunque non riescono a fare quel passo in più e ad ottenere quel po’ di consenso maggiore che permetterebbe loro di ricevere la notorietà che meriterebbero nella giungla del rap senza più controllo e del pop da terza elementare. Basterebbe citare i Perturbazione o la particolarissima Meg per intenderci.
Spesso e volentieri queste tre “categorie” vengono dai più, confuse, mescolate e unite insieme in quel calderone musicale che si definisce “emergente”, privando loro delle necessarie e più che giuste distinzioni.
E così tutti coloro che vengono classificati con questa etichetta finiscono per essere messi in secondo piano rispetto ai “big”, perdendo la possibilità di farsi conoscere su vasta scala e raggiungere la fama di artisti probabilmente destinati al declino, perché poco propensi ad innovarsi e troppo legati ad un modo di fare musica “vecchio stampo”.
Il problema dunque dove sta? Forse nel valore e nella qualità di tali gruppi? Se così fosse sarebbe inspiegabile il quantitativo di date di artisti come UNA, o dei Kutso che con il loro Perpetuo Tour hanno collezionato numerosissimi live. Sarebbe inspiegabile anche il fatto che gruppi del calibro degli M+A e dei Blindur ci rappresentano all’estero in più occasioni; e sarebbe anche inspiegabile che la miriade di festival organizzati su tutto il nostro territorio abbiano come headline band “emergenti” e poco conosciute: Foja, Gnut, I Cani, Giovanni Truppi, A Toys Orchestra. Forse il problema sta nella comunicazione e nella pubblicità, che non permettono a tutti di conoscere tali artisti? Non credo.
Personalmente penso che il problema stia nella paura della novità da parte sia del pubblico di massa che di coloro che, da dietro le quinte, muovono le fila e tessono le trame del panorama musicale nazionale. In fondo diceva il detto: “Mai lasciare la via vecchia per quella nuova, si sa cosa si lascia e non si sa cosa si trova”, quindi perché abbandonare la sicurezza dei numeri di un Ligabue, o di un Jovanotti? Perché smettere di puntare sugli artisti usciti dai Talent Show, scelti dal pubblico, che comunque possono ritenersi emergenti che però, chissà come mai, spariscono dopo poco tempo dalla circolazione? Perché mai tentare nuovi ascolti o dar spazio a qualcuno che in un futuro potrebbe diventare il nuovo De Andrè o ad una band che ha tutte le carte in regola per ereditare la bravura della PFM?
Domande che non riceveranno risposta. O forse sì?
Intanto questo è il panorama musicale del nostro amato stivale: staticità, immobilismo e nessuna voglia di dar più spazio alle nuove proposte, quelle di valore s’intende.