Il cellulare: un dialogo tra figli e genitori nell’era di internet
“Metti via quel cellulare”. Non è una predica, quella di Aldo Cazzullo. Suona quasi come una preghiera sussurrata a mezza bocca. Non è rivolta al cielo, né lanciata nel vuoto come un discorsetto moraleggiante, ma è vera, diretta cena dopo cena a loro, ai suoi figli, chini sui rispettivi schermi luminosi. Schermi che somigliano a specchi. Tutto ciò che rimandano è la nostra immagine, spesso deformata. Specchi che, come il laghetto di Narciso, ci hanno catturato e non accennano a lasciarci andare.
“Metti via quel cellulare” non è un monologo. È un discorso a due, o meglio tre voci. Sono i pensieri di un padre. Sono i suoi rimproveri bonari a una nuova generazione, ma anche le sue domande. Che rivolge prima a loro e poi anche a se stesso. Per rispondere a un’accusa sottile. “La responsabilità di quello che siamo è la vostra. Non del telefonino che, semmai, è il vostro alibi”, dicono Rossana e Francesco, i suoi figli, gli altri autori di questo libro. I più importanti forse. Perché non può esserci domanda senza risposta, nel dialogo tra le generazioni, nel gioco delle responsabilità che non deve ridursi a una gara a chi l’ha avuta peggio. Ma che mira alla comprensione, quella più profonda, figlia del conflitto.
Noi di Cultora assistiamo all’incontro a Tempo di Libri, nella giornata dedicata a Libri e Immagine. Siamo nello stand allestito dal Corriere della Sera. Cazzullo non è solo: Michele di Giacomo è il suo compagno di viaggio. Si oggettifica nella lettura recitata di alcuni estratti del libro del giornalista. Di Giacomo interpreta entrambe le voci, quella del padre e quella dei figli. L’effetto non esclude venature comiche. Tra il pubblico, i sorrisi abbozzati di chi si riconosce in conversazioni a cui ha preso parte mille volte. Possiamo affidarci, come naufraghi, a messaggi messi nel collo della bottiglia e lasciati andare nel mare vasto e tempestoso del web? Cosa ne è di letteratura e arte, in questo mare magnum? Sappiamo più cose, abbiamo saperi enciclopedici a portata di dita ma incompleti, frammentati, “fatti a pezzi e gettati in aria come coriandoli”. Dall’altra parte, la risposta non tarda ad arrivare. “Ogni rivoluzione ha i suoi haters.” E ancora: “rendere la rete più umana sarà la sfida della nostra generazione.”
Chi scrive fa parte della generazione nuova, la cosidetta dei “nativi digitali”. Si riconosce nelle descrizioni acute e impietose di Cazzullo, ne sorride. Che poi, come dice anche lui, veri nativi digitali non siamo. Noi, nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, abbiamo guardato le videocassette. Abbiamo fatto parte di un mondo senza facebook, twitter e instagram. Abbiamo aspettato puntuali alle tre del pomeriggio l’inizio dei programmi per ragazzi. Quali le sfide allora per chi nasce oggi? Per chi, prima di saper scrivere il proprio nome, ha imparato a digitare la parola “youtube” su un touch screen? Del resto, però, all’onnipresenza della rete si sono abituati proprio tutti. Chi più, chi meno velocemente. “Papà, da che pulpito parli, se anche tu poi guardi le notizie sul cellulare?”. Bisogna riconoscerlo, sfuggire alle attrazioni di internet è difficile. Soprattutto quando si è giovani, quando la rete diventa un rifugio. E allora le crude accuse di narcisismo suonano forse un po’ affrettate. Chi, passando accanto a uno specchio, non sente neanche per un secondo il bisogno di ammirare il proprio riflesso?
Gli interrogativi sul futuro dell’industria culturale sono però più difficili da evitare. “Se il Settecento aveva il teatro, l’Ottocento il grande romanzo, il Novecento il cinema, cosa abbiamo noi oggi?” La risposta è: abbiamo tutto. E anche di più. Ogni informazione è lì, immagazzinata in codice binario. Gratuita. Francesco e Rossana ricordano un video con la Quinta sinfonia di Beethoven diretta da un grande maestro d’orchestra. Duecentomila visualizzazioni o giù di lì. Tra migliaia di persone, ci sarà chi si è avvicinato per la prima volta a a Beethoven grazie al video. “Sì”, ribatte il loro papà, “ma Gangnam Style di visualizzazioni ne ha avute un miliardo.” Forse ha ragione, forse che tutto sia gratis in rete è soltanto un’illusione. Qualcosa che viene comprato e venduto c’è sempre. Quel qualcosa potremmo essere noi. Alcune aziende stanno acquistando a peso d’oro l’immensa mole di dati personali e informazioni sensibili che disseminiamo nel web. Censurare internet non conviene più: è molto più remunerativo lasciare fluire i dati, in modo da analizzarli. E poi vengono la difficoltà a concentrarsi, la bassa soglia dell’attenzione. Il labirinto di link e ipertesti che disabitua alla lettura approfondita. “Andando nel vasto mare del web, si giunge sempre da dove si è venuti”.
Uno strumento che ci ha cambiati o forse, come suggeriscono Rossana e Francesco, che dobbiamo imparare a dominare. Il futuro si prospetta ancora più complesso e no, forse non finirà come in 2001: Odissea nello spazio. Un film che anche io ho trovato geniale, anche se dura tre ore. Forse qualche speranza per la nostra generazione c’è. D’altra parte dobbiamo riconoscerlo: ha ragione Cazzullo quando osserva che “dovete capire che non è vero, che non state così male. I vostri nonni hanno fatto la guerra.” Un giorno poi, si sa, finirà il tempo delle accuse, del “se siamo così lo dobbiamo a voi”. Verrà il momento di assumerci le nostre responsabilità. Delle recriminazioni, anche, se ci faremo fagocitare dalla rete e dai suoi meandri. Magari guarderemo i nostri figli e non li capiremo. Loro ci scruteranno dal retro dei loro visori di realtà aumentata e diranno: “La responsabilità di quello che siamo è anche vostra.”