Adriano Angelini Sut racconta “L’ultimo singolo di Lucio Battisti”
di Benedetta Nucci, in Blog, Letteratura, Libri, del 18 Apr 2018, 09:25
Quest’anno tra i quarantuno candidati al premio Strega partecipa un romanzo che si distingue per la sua “maleducazione”, per l’indole originale e lo spirito di rottura. Si chiama L’ultimo singolo di Lucio Battisti e tratta di tre famiglie che, di estrazione diversa, coprono tutto lo spettro delle classi sociali. La grande Storia passa attraverso le vicende personali dei personaggi, che si dibattono sullo sfondo di Roma, ritratta dagli anni Cinquanta al 1998, ricordata con nostalgia. C’è chi è guidato da un ideale politico, chi è caratterizzato da un tratto culturale ben distinto e chi segue la grande passione per Lucio Battisti: il filo della vita di ciascuno si aggroviglia in un gomitolo che il romanzo, pagina dopo pagina, si preoccupa di dipanare.
È un libro onesto, senza peli sulla lingua, così come Adriano Angelini Sut, autore che, come risulta dall’intervista che segue, di essere politicamente corretto non si preoccupa troppo.
Le tre realtà corrispondenti alle tre famiglie protagoniste del romanzo sono molto diverse tra loro, quasi agli antipodi. Come ha acquisito una conoscenza così profonda di ciascuna?
Be’, in parte (soprattutto per la questione legata al mondo ebraico), ho avuto uno straordinario consulente, il professor Piero Di Nepi. Per le altre cose mi sono documentato e ho anche trasferito nel romanzo esperienze autobiografiche.
I Suoi personaggi, sebbene individuati da una caratteristica ben precisa (il neofascista, il figlio di proletari, l’ebreo), non si riducono mai a macchiette. Questo permette loro di intrattenere rapporti che prescindono i mondi diversi da cui provengono. Qual è, dunque, il Suo pensiero rispetto all’entroterra dell’individuo? In che modo le radici socio-culturali di una persona determinano la sua identità? E come rispondere positivamente alle influenze esterne, derivanti dall’educazione, dalla famiglia e dall’ambiente?
Sono convinto che l’ambiente che ci circonda ci influenzi ma non in maniera determinante. Altrimenti vivremmo in società immobili. E non ci sarebbe interscambio umano. O meglio, esistono sistemi di governo che prediligono società immobili (tipo l’Italia degli ultimi venticinque anni), ma viva dio esistono le pulsioni caratteriali, il daimon di Hillmaniana memoria che se ne frega da dove vieni e che tipo di cultura hai. Sono un fautore delle società aperte, interclassiste, interrazziali, mobili; il punto è farlo con chi ci sta. Non per forza. O per ideologia. Le faccio un esempio, per toccare un delicato tema attuale senza nominarlo. Se io devo convivere a forza con un tipo di cultura che costringe le donne a portare il velo, che le segrega, che prega otto volte al giorno (molte in strada), che fa le abluzioni per purificarsi e che considera gli infedeli come inferiori, e nemici da abbattere, be’, con quei tipi lì, di certo non si può pretendere di creare una società interrazziale.
Un romanzo di memoria, storica come musicale. Qual è il suo rapporto con essa? Di nostalgia, di sfiducia rispetto al presente? Oppure, più ottimisticamente, parla di memoria perché sia d’insegnamento o d’ispirazione?
Parlo di Roma del passato perché quella attuale non è più la mia bella città. È mutata antropologicamente, strutturalmente, architettonicamente. Sulle cartoline per turisti sembra sempre la stessa, ma se ci vivi e la giri in lungo e largo ti rendi conto che è stata invasa da entità maligne. Che è stata occupata da predoni sanguisughe. È brutta, inospitale, incivile. E il brutto influenza l’animo, esattamente come fa la bellezza. È molto semplice e anche semplicistico. Se io vivo in un posto brutto, inospitale e avverso divento come il luogo. Poi, siccome però torniamo al punto di sopra, non credo che l’ambiente influenzi totalmente la persona, chi ha un animo più nobile cercherà di difendersi o ribellarsi, di cambiare le cose: o forse se ne andrà. La memoria serve ma fino a un certo punto. Per non far tornare gli orrori della Storia servono le armi (gli armamenti, quelli potenti) e il coraggio per difendersi (e questi sono tempi in cui andrebbero eretti ponti e muri altro che mani tese e falsa solidarietà che serve a coprire business spietati sulla pelle dei poveracci). Ci sono stati sei milioni di ebrei morti durante il nazismo, crede che i nuovi nazisti o gli islamisti che infestano il mondo non siano pronti a replicare quello sterminio, se potessero? La musica… be’ la musica, come scrivo in epigrafe al romanzo, ha reso la mia vita meno insopportabile.
Le Sue sono scelte coraggiose: uno dei protagonisti del romanzo è un giovane estremista di destra, la cultura ebraica e filoisraeliana è indagata ed esaltata senza chiedere scusa e persino in ambito musicale, il più “innocuo”, ha scelto di scrivere di Lucio Battisti, figura politicamente controversa. L’intento di provocare sta all’origine delle Sue scelte? Le ha fatte con la consapevolezza di andarsi a inserire in un ambiente, quello letterario, per la maggior parte orientato diversamente? E, soprattutto, spera di ottenere un effetto di sorta, magari di aprire la strada per un filone che prescinda dai soliti schemi politici e culturali?
Nessuna provocazione. Anche perché dell’ambiente letterario, nel quale ci sto, marginalmente, da quindici anni (senza alcuna voglia di e-marginarmi) non me ne frega nulla. Volevo semplicemente scrivere un romanzo che avrei voluto leggere. Non mi interessa dei trentenni in crisi di identità, benpensanti, delle problematiche esistenziali dei disoccupati, o dei loro genitori che hanno fatto il ‘68 o il ‘77. Non mi interessa (e credo che non interessi più a molti, nonostante vogliano farci credere il contrario) delle gesta della mala, dei camorristi, di questi nuovi trend sanguinolenti della narrativa; non mi frega nulla degli ispettori, dei commissari, dei serial killer. Volevo leggere qualcosa di diverso, e siccome non c’era, l’ho scritto.
Parlando di linguaggio, Lei sceglie di inserire alcune inflessioni dialettali all’interno della narrazione, altrimenti in lingua standard. Pare che il linguaggio sia specchio dell’interferenza e continua compenetrazione tra Storia generale e storia individuale. Quali le motivazioni dietro tale scelta stilistica?
Perché a Roma fra persone comuni si parla così. Sono cresciuto in un contesto piccolo borghese, e coi miei amici a scuola, a calcio, in palestra, al mare nessuno parlava italiano forbito. L’intercalare, l’influenza dialettale (ma il romanesco non è un dialetto) sono assolutamente presenti anche nelle classi sociali borghesi. Ci sono pariolini che parlano sguaiato come un coatto di Centocelle. Pure oggi. I personaggi parlano italiano o con inflessioni dialettali a seconda del posto e del contesto dove si trovano. Fare diversamente avrebbe dato al romanzo poca credibilità. Poi, insomma, devo sorbirmi il dialetto napoletano (quello sì un dialetto) dei criminali di Gomorra e non posso scrivere qualche paragrafo in un romanesco simpatico?
Qualè il rapporto tra la musica e la cronaca, così come lo ha presentato nel Suo romanzo? Dove sta il confine tra impegno politico e gesto artistico? Entro quale orizzonte, tra i due, collocherebbe il Suo romanzo?
Siamo passati da un estremo all’altro. Negli anni ‘70, gli anni di Battisti e di uno dei protagonisti, Natale De Santis, se non apparivi impegnato non eri considerato, oggi, musicalmente parlando, in Italia siamo invasi da ectoplasmi che non sanno più nemmeno scrivere un verso non dico profondo ma che almeno approfondisca (i rapper come Caparezza, o funamboli come Max Gazzè, ogni tanto ci riescono ma sono perle rare). Siamo in mano a pochi produttori (sempre i soliti) che decidono cosa devo sentire, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. La desolazione più nera. Torneremo mai non dico ai cantautori ma alla freschezza, alla gioia, al morbido e geniale disimpegno di qualità degli anni Ottanta: riavremo mai una Rettore, un Alberto Camerini, un Lucio Dalla, un Ivan Cattaneo, un Sergio Caputo, un Alan Sorrenti, i Matia Bazar? O devo entusiasmarmi per i Maneskin (che paiono l’unico prodotto meno impresentabile degli ultimi tempi)? Se Tommaso Paradiso abbandona quel progetto per me inutile che sono i Thegiornalisti e fa singoli meravigliosi come “Da Sola (In The Night)”, quello in duetto con Elisa, allora c’è speranza di rilancio. Io quando ho voglia di sentire buona musica italiana rimetto su “Cosa succederà alla ragazza” di Battisti. E provo a ricordarmi e a canticchiare gli estrosi testi di Pasquale Panella. Provateci. È complicatissimo perché sono dannatamente belli e complessi senza essere impegnati. Dove collocherei il mio romanzo? Sicuramente più vicino alla musica che alla cronaca.
Benedetta Nucci
Benedetta Nucci è una studentessa di ventidue anni. Studia Editoria e Scrittura alla Sapienza. È entusiasta di tante cose, tra cui la letteratura, l’arte, la musica, il cinema e Roma.